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QUESTO IL MIO DON LORENZO

A 22 anni dalla morte di don Lorenzo Milani riproduciamo un’intervista della madre a Nazareno Fabbretti

di Nazareno Fabbretti

Il Popolo dell’Oltrepo, Tortona (Alessandria), 9 luglio 1989, pag. 33

 

MIO FIGLIO DON MILANI

Incontro con la madre del parroco di Barbiana a tre anni dalla sua morte, intervista a Alice Weiss Milani

Il Resto del Carlino, Bologna, 8 luglio 1970

Che cosa ne sanno, a 22 anni dalla morte, i giovani italiani di uno degli educatori più singolari e appassionati del nostro tempo? Ne ricordano a stento il nome e l'opera più chiacchierata (Lettera a una professoressa), ma nella scuola ne hanno avuto sempre meno notizie. Non credo inutile ripresentarne il profilo e il carattere essenziale che ne ebbi, nel luglio de11970, da sua madre stessa. È l'unica intervista concessa da Alice Milani Weiss, atea e agnostica, per sua stessa confessione, ed è il ritratto più umano esatto di don Milani prete e educatore.

Ricordo che si schermì per 8 mesi prima di darmela; poi me la dette, poi ebbe scrupolo, e voleva disdirla pur essendo già apparsa su Il Resto del Carlino dell'8 luglio 1970, ma ci ripensò. La ripresento alla lettera oggi, per mantener vita la memoria di questo Socrate cristiano.

Signora Weiss, se prima o poi ci questa Chiesa imprevedibile, capace di tutto, le facesse lo "scherzo" di canonizzare suo figlio, in che stato d'animo verrebbe a trovarsi lei, atea ed ebrea non praticante?

Non so cosa farà la Chiesa di mio figlio. Ma non importa. Altari o no, Lorenzo resta quello che è, e io non lo vedo diversamente da come l'ho sempre visto. Mi mette a disagio che mi si domandi di lui in quanto sua madre. Ogni parola detta dalla madre, soprattutto a proposito di uno come lui, può acquistare un senso particolare che non mi piace. Io stimavo la Chiesa anche prima che Lorenzo si convertisse e SI facesse prete. Certo con lui prete, la Chiesa l'ho stimata anche di più. L’ho conosciuta meglio, soprattutto quando mio figlio ha cominciato a patire tanto proprio per la Chiesa. Ho sofferto, ma non mi sono stupita o scandalizzata. Non mi sono mai illusa che potesse essere il contrario.

Quando suo figlio, verso i 19 anni, si è ‘convertito’ e ha detto che voleva farsi prete, qual è stata la sua reazione? È stata favorevole?

No, non è stata favorevole. Mio marito ed io eravamo contrari, abbiamo sofferto di quella scelta. Io, come atea ed ebrea, e anche mio marito, benché cattolico d'anagrafe. Ma non abbiamo detto o fatto nulla per distogliere Lorenzo dal suo proposito. Lo conoscevamo bene, sapevamo che se aveva deciso per quella strada nessuno lo avrebbe potuto dissuadere. Cosa ho provato davanti alla sua conversione? Come dirlo? E poi perché parlarne? Credo che questo appartenga solo a me, al mio cuore e ai miei ricordi. Una cosa come quella è sempre un mistero, e io non posso presumere d'aver capito il mistero della vocazione religiosa di mio figlio.

Lo vide come uno sconosciuto, in quel momento?

No, non credo. Io conoscevo bene mio figlio. Sapevo che era capace solo di scelte definitive, totali. In questo senso non era per me uno 'sconosciuto'. Per il resto, anch'io, davanti alla sua decisione, e a tutto quello che da essa è scaturito dopo, non mi sento neanche in diritto di capire e di dire più degli altri solo perché sono sua madre. Sono una testimone che ha potuto vedere certe cose più da vicino, ecco tutto. Vorrei che non mi si chiedesse di più.

Quando Lorenzo fece quella scelta, credette di perderlo o no?

No, lo conoscevo bene mio figlio, la sua devozione. Infatti, non li ho mai persi. Tanti hanno scritto della sua durezza, dell'ironia, della spietatezza di mio figlio, uomo e prete, e per un verso hanno ragione. Non è stato lo stesso Lorenzo a scrivere che "pochi danno amore con la durezza del Signore". Ma con me Lorenzo fu sempre tenero, affettuoso, devoto. Devoto sì, ecco la parola: la sua per me era una vera devozione. Non mi ha mai preso in giro, non ha mai giocato con me con quei suoi sarcasmi che tanti altri, a loro spese, hanno conosciuto di lui. Non è nemmeno vero che venisse poco a trovarmi. Veniva spesso, certo con sacrificio, per non sottrarre nemmeno un'ora ai ragazzi di San Donato o di Barbiana.

(La signora Alice si alza per mostrarmi la stanza dove Lorenzo morì, il 26 giugno 1967. La donna non ha un tremito nella voce, i suoi occhi sono asciutti). "Vede? è morto qui, in questo letto. E questi alle pareti sono alcuni dei suoi quadri che aveva dipinto a 19 anni quando studiava pittura a Brera. Non sono belli?". I quadri sono belli, raffigurano angoli della campagna di Firenze. Il disegno è tenue, ma netto. L'impasto dei colori è luminoso e sicuro. La lezione di Rosai non è lontana. Ma sembrano piuttosto le "prove" della fine di un idillio e di una ricerca ad un tempo: un 'paradiso mai a sufficienza perduto'.

È qui che il cardinale di Firenze, Ermenegildo Florit, venne a trovare suo figlio poco prima che morisse?

Si, è in questa stanza che venne il cardinale. Fu una cosa pietosa. Mi sentivo a disagio. Lorenzo era lucidissimo, anche se non poteva parlare e il cardinale non trovava che pietose parole, frasi d'occasione, per aiutarlo. "Offra tutto al Signore... Coraggio...". Solo per me, ricordo bene, ebbe una parola più umana. Mi disse: "Non le dico di avere pazienza, di pazienza ne ha già avuta tanta".

Come ricorda che cominciò lo scontro di Lorenzo col mondo ecclesiastico in cui entrava?

Forse un anno o due dopo che era entrato in seminario. Vi entrò nel novembre del 1942. I primi tempi fu un ragazzo molto felice, felice come l'avevo visto poche volte. La nostra è una famiglia in cui si è sempre avuto tutto, dal pane alla cultura, dal prestigio al culto delle cose belle. Ma solo in seminario Lorenzo trovò subito ciò che istintivamente cercava con tutto se stesso: una ragione assoluta per vivere, una disciplina costante. Dopo vennero i primi urti, le incomprensioni da parte dei superiori. Lui era docile, ubbidiente come del resto era personalità così singolare, netta, unica nel suo genere che dovette trovare impreparati quelli che dovevano educarlo. Però non fu solo un conflitto di uomini: fu soprattutto uno scontro fra due concezioni di vita del tutto diverse. La 'laicità' di mio figlio prima della 'conversione' era sempre stata rigorosa e coerente quanto lo fu la sua religiosità dopo; non poteva venire a patti col mondo, accettare compromessi, per nessun motivo.

Vista da lei, come nacque la vocazione di suo figlio?

Nacque per gradi. E nacque da un senso di vuoto, d'insoddisfazione. Noi ci si aspettava che prendesse la via accademica, che seguisse la tradizione di famiglia. Invece, dopo il liceo, volle studiare pittura a Brera. Erano gli anni della guerra. Presto si dovette sfollare da Milano, e ritirarci nella nostra villa di Montespertoli, vicino a Firenze. Lui intanto aveva cominciato a interessarsi anche di architettura, oltre che di pittura. Poi, non so come, si ritrovò in mano un libro sulla liturgia cattolica. Se ne entusiasmò, ma, lì per lì si pensò che fosse l'entusiasmo d'un esteta. Invece era accaduto, o stava per accadere qualcosa di assolutamente diverso. Di lì a pochi mesi entrò in seminario.

Lei crede in Dio, signora Milani?

No, non credo in Dio. Sono ebrea, ma non credente e praticante. Anche se la Chiesa cattolica ha sempre avuto su di me una grande attrazione vivo, religiosamente, come tanti altri, sulla "terra di nessuno". Per quanto il caso di mio figlio mi abbia colpito profondamente, non gli ho mai detto, né allora né dopo, una sola parola che lo potesse condizionare nella sua libertà. Io ho sempre rispettato la sua libertà e lui la mia.

Lui non le ha mai parlato di Dio, della fede, dell'aldilà?

Mai, mai una parola. Lorenzo, lei lo sa, non nominava mai il nome di Dio invano. Del resto, ripeto che sono cose di cui non voglio parlare. Ora ho un po' meno paura, ma appena è morto ne ho avuta parecchia. Voglio dire che ho temuto che alcuni lo potessero strumentalizzare, anche se in buona fede, e se lo volessero annettere. Adesso che è morto, quasi tutti sono d'accordo con lui, non è vero?

Lei si dichiara atea, ma sembra che ciò che più le sta a cuore sia Lorenzo come sacerdote.

Infatti è così. Mi preme soprattutto questo: che si conosca il prete, che si sappia la verità, che si renda onore alla Chiesa anche per quello che lui è stato nella Chiesa; e che la Chiesa renda onore a lui. Dico, questo, sia chiaro, non solo come madre. Mi rende felice il fatto che le opere di Lorenzo tornino ora più vive che mai -Lettera a una professoressa sta avendo un enorme successo negli Stati Uniti- e che persino il teatro si occupi delle sue proposte politiche e pedagogiche. Ma se non si comprenderà realmente il sacerdote che Lorenzo è stato, difficilmente si potrà capire di lui anche tutto il resto. Il suo profondo equilibrio, per esempio, fra durezza e carità.

Lei crede agli sviluppi sociali e culturali del pensiero di suo figlio?

Posso anche crederci, ma non è la cosa più importante: è solo la conseguenza di qualcos'altro, molto più profondo e totale. Lorenzo, per esempio (e me lo disse più d'una volta), non avrebbe mai fatto il prete-operaio, come i 'preti-operai' francesi. Coi piedi lui era pronto a prendere a calci tutte le ingiustizie che si opponevano alla sua missione di prete, ma nelle mani, soltanto l’ostia tenera (e avvertiva: "Non l'ho deposta per correre sulle barricate"). Non a caso queste parole concludono Esperienze pastorali, il suo primo libro contestato, proibito, denunziato.

Alice Milani si rende conto che sta infervorandosi e aprendosi alle confidenze che più attendevo e speravo. Ha quasi un timore improvviso per ciò che mi sta dicendo. Cerca una foto in un cassetto: è Lorenzo in mezzo ai soliti ragazzi: ma la foto è rara: Lorenzo sta sorridendo. Insisto.

Signora Milani, un santo così come suo figlio, lei, se pregasse, lo pregherebbe?

Non voglio dir nulla. Ogni parola della madre potrebbe complicare, non semplificare le cose. Voglio solo che Lorenzo sia conosciuto meglio. Che si dica anche della sua allegrezza (...). Il resto non tocca a me. Tocca semmai a quella Chiesa che lo ha fatto tanto soffrire, ma che gli ha dato il sacerdozio, e la forza di quella fede che resta, per me il mistero più profondo di mio figlio.

 

 

 

QUANDO SI GIOCAVA A TENNIS

IL CASO DON MILANI

Al Berchet con Lorenzo, mio compagno di banco

di SAVERIO TUTINO

la Repubblica, Roma, giovedì 2 luglio 1992, pag. 35

Il revisionismo ha colpito anche don Milani. La Lettera a una professoressa torna come un boomerang a sbattere sulla zucca dei bambini difficili da promuovere. Proprio l’altro ieri, in una scuola italiana, è stata bocciata una bambina di prima elementare perché troppo timida. Nel momento in cui bisognerebbe rispolverare le idee di don Milani come bandierine per segnare limiti da non superare nel limaccioso movimento di restaurazione, Vassalli viene con le migliori intenzioni a dare a Lorenzo del "borioso ignorante". Tanto, lui è morto, con la sua lettera, nel ’67. Ma il ’67 venne un anno prima del ’68 e già si intravede la scarica di legnate che cadrà prima o poi sulla testa di gente come Davide Turoldo o Ernesto Balducci. Nell’ultima lettera che mi scrisse, Lorenzo mi invitava a Barbiana per parlare ai suoi piccoli amici delle lotte dei popoli del Terzo mondo. Prima, mi aveva chiesto di stabilire per lui contatti con gli algerini, a Parigi. Avevo conosciuto contemporaneamente Oreste Del Buono e Lorenzo Milani, al "Berchet", nel 1940. Fuori dalle aule del liceo, frequentavo Lorenzo al tennis della "Forza e Coraggio" e Oreste sul campetto di calcio dietro a Porta Romana. Poi d’estate ci scrivevamo lettere. Quelle di Oreste erano già pregne di letteratura. Quelle di Lorenzo avevano toni caustici e perentori: diceva ciò che pensava con una disinvoltura geniale per la sua età. Poi si mise a dipingere e affittò uno studio dalle parti di via Moscova, sotto il livello stradale. Era allievo di Morlotti. Cercando colori e immagini proprie, sembrava giocasse. Una delle prime figure che dipinse fu Tiziana, una ragazza che frequentava Brera. Poi mi chiese di posare per lui. Quel quadro forse non andò oltre qualche segno a carboncino. Poco prima dell’8 settembre 1943 fummo costretti a separarci. Nell’inverno seguente, Lorenzo cominciò a frequentare la Chiesa. Più tardi mi raccontò che fra le navate del Duomo era stato colpito dalle porpore dei paramenti sacri. Dipingendo la liturgia si era convinto che quella era vera e propria scenografia religiosa e che con essa si poteva esprimere una solidarietà umana più concreta che per vie politiche. Un prete morì e lui giurò sulla sua bara che avrebbe preso il suo posto. Nel nostro intreccio di amicizie, fin dal ’43 avevamo già ammucchiato un piccolo bagaglio di ambizioni personali. Oreste era più svelto nel concretarle. Lorenzo aveva una grande capacità di elevarsi sopra i sentieri comuni. Da qui il suo tono insieme altero e gioioso, che a volte poteva sembrare brusco: era coscienza di esigenze morali da concretare subito, anche nel linguaggio. Del resto, tutti e tre eravamo un po’ nevrotici e di origine borghese.

 

 

 

DON MILANI: IL PRETE SCOMODO

di Italo Moscati

Cinema 60, n° 110, giugno 1975, pagg. 30-32

Chi era Don Milani? Due film hanno tentato di fornire una risposta a questa domanda. I film sono: "Un prete scomodo" di Pino Tosini, e "Don Milani" di Ivan Angeli. I due film hanno caratteristiche diverse, anche se basati su documenti esistenti: né dall'uno, né dall'altro, però, è venuta una risposta convincente.

Chi è don Milani? La domanda acquista oggi un senso particolare perché la risposta data da due film non convince. È, anzi, questa mancata risposta a far sì che sembri opportuno porre la domanda. Che, peraltro, non è nuova e ha accompagnato praticamente tutta l'ultima parte della vita del sacerdote e, naturalmente, anche dopo. I film sono di Pino Tosini e Ivan Angeli, con questi titoli rispettivamente: Un prete scomodo e Don Milani, prodotto dall'Italnoleggio. Hanno caratteristiche diverse, anche se si rifanno ai documenti esistenti e soprattutto agli scritti dello stesso don Milani. Il primo abbraccia praticamente tutta la vita del sacerdote scomodo per le gerarchie e per il conformismo cattolico. Il secondo si limita ad illustrarne alcuni aspetti, nella seconda parte della vita, fino alla morte.

Già da qui è possibile rinvenire una differenza. Tosini cerca in qualche misura di storicizzare la vicenda di don Milani, abbinando alla rievocazione biografica un riferimento puntuale alla realtà del tempo in cui visse. Non mancano, addirittura, degli "inserti" per rimarcare una stretta dipendenza degli atteggiamenti del prete in relazione agli avvenimenti. Ad esempio, il tema della guerra è più volte indicato e serve per far nascere nello spettatore l'idea di una reazione "morale" del prete verso la violenza dell'uomo contro l'uomo. Ma questo accostamento fornisce di per se stesso un primo elemento da sottoporre a critica. Questo tipo di storicizzazione salta i nodi politici e ideologici per collocarsi in una dimensione morale che, nel film, a causa dell'uso fattone dal regista, diventa moralistica, poiché la condanna della violenza è forte ma anche generica, è decisa ma riguarda comunque il problema della incomprensione tra gli uomini, della necessità di superarla e di un incontro alla fine del dialogo, cioè esprime un commento sulla bontà cristiana di don Milani piuttosto che una sua autentica, diretta riflessione sulla storia, e una sua certo più complessa comprensione delle cose e del loro andamento.

Non che la religiosità non implichi una "strutturale" avversione alla violenza di qualunque natura essa sia, anzi è proprio in questo dato "strutturale" che la religiosità trova la capacità spesso di vedere al di là del conti[n]gente e del pregiudizio, ma è pur vero che il non precisare e il lasciare nell'indeterminato contribuisce a creare un clima di astrattezza predicatoria che annulla in concreto la posizione di don Milani rispetto a quella "al di sopra della mischia" di tanti preti, spesso guerrafondai (la polemica di don Milani contro i cappellani militari e la loro "ideologia" avrebbe dovuto far pensare). Non è, tuttavia, questo il difetto principale del film, che si avvale di una sceneggiatura di Luciano Lucignani molto vicina ai testi e fin troppo preoccupata di rifarli, al punto che si ha l'impressione di una sorta di tentativo di scavo archeologico in una memoria invece che di una opportunità colta in tutti i potenziali spunti.

Il difetto principale consiste nella immagine complessiva che viene offerta del priore di Barbiana. Lo si mostra sempre con la lacrima pronta sotto le ciglia, con le mani stropicciate l'una contro l'altra per l'ansia e per la commozione, con i passi brevi e secchi di chi non si sa dominare e fa trasparire un rovello profondo che cerca solo uno sbocco. Nei contatti con la gente semplice è dipinto come impregnato fortemente di un inconsapevole -chissà- paternalismo che gli fa usare diminutivi e aggettivi con un pizzico di ambigua maliziosità premurosamente protettiva. Nei contatti con la gente "importante" è descritto invece con una conscia fierezza che lo fa diventare una "vittima" costante di "carnefici" spietati e ingiusti, e non chiaramente motivati da precise opportunità, come appunto accadeva (le autorità ecclesiastiche non lo odiavano, lo sapevano nemico e basta).

Da una parte, insomma, un piagnone, intento a organizzare e a far studiare i suoi ragazzi; dall'altra, un candidato ad un inevitabile martirio per l'orgoglio con il quale sosteneva le sue tesi e le sue azioni, quasi però con la "voluttà" di risultare perdente. In una presa, tanto appiccicosa e schematica (i personaggi di contorno sono pure comparse che non sanno esprimere "l'altra parte" con la relativa durezza e insensibilità), la figura di don Milani viene travolta, nonostante che la rievocazione proceda in una scelta abbastanza corretta -anche se convenzionale- dei fatti che lo chiamarono in causa: in primo luogo, l'attività alla scuola di Barbiana con i ragazzi poveri che voleva assolutamente sottrarre al mondo e alla buona educazione dei "pierini", come dimostra la famosa "Lettera ad una professoressa". Una grossa responsabilità spetta ad Enrico Maria Salerno che ha assecondato e, forse forzato, il regista nella tendenza all'immagine commovente anche se non edificante, suadente anche se non edulcorata. La vita di don Milani diventa, in definitiva, un "bell'album" di foto e di sequenze commemorative, destinate ad un consumo riduttivo e convenzionale.

Il film di Ivan Angeli, protagonista un poco convinto Edoardo Torricella, è stato realizzato con una povertà di mezzi e con una linearità di sceneggiatura che possono trarre in inganno. E infatti alcuni critici ci sono caduti, scambiando per voluta naturalezza una approssimatività sia nelle riprese che nel montaggio, oltre che nella impostazione del racconto. Qui la storicizzazione è pressoché assente, si preferisce indugiare sul lato umano, presentando un don Milani più dimesso e introverso. Anzi, è proprio la introversione la chiave che viene in evidenza, appena corretta dall'inserimento di alcune personalità -tra le quali La Pira, non ancora entrato in lista nella Dc- che conobbero direttamente il prete scomodo. Don Milani sembra più che altro un maestrino di campagna che si arrovella e si tormenta, cancellando gli affanni sotto un timido sorriso. Il suo volto si accende e si trasforma soprattutto quando testimonia la sua fede e quando dice alcune verità agli intellettuali cattolici e ai comunisti, con i quali marcò sempre una differenziazione, considerando i primi strumentalizzatori e sostanzialmente inutili in quanto borghesi (e non si può dire che non avesse ragione in molti casi), e sostanzialmente entrando in competizione umana e ideale con i secondi: discuteva con loro, li incontrava, ma non cessava mai di rimproverarli con dolce asprezza o di metterli in guardia (una dialettica che il regista avrebbe dovuto chiarire dedicandovi più attenzione).

Emerge qui il problema dell'integralismo. Don Milani non fu integralista, cercando sempre il dialogo e la collaborazione. Ma la sua convinta adesione al Vangelo e la sua fede lo portavano, com'è ovvio, a privilegiare la sua scelta, magari facendogli assumere una intransigenza senza dubbi e senza ripensamenti. Anche questo secondo film non si pronuncia in proposito e non entra nel merito, limitandosi a bordeggiare i fatti, alcuni fatti, e sforzandosi di salvare la figura del prete nella sua interezza, o "integralità". Ed ecco come è possibile accusare i due registi e i due film di "integralismo", cioè di aver voluto realizzare cinematograficamente l'immaginetta di un santo, certo di un santo di oggi che si innesta in quell'anticonformismo, in quella disubbidienza, in quel dissenso che hanno trasformato il volto del cattolicesimo e dei credenti in Italia.

Don Milani, secondo il parere che ho ricavato dai libri suoi e su di lui, dalle notizie e dalle testimonianze che ho raccolto in chi lo aveva conosciuto, non era un santo, neanche di sinistra, o meglio del cattolicesimo di sinistra, era un prete che tentava di correggere la vicenda umanamente e spiritualmente tragica di un "povero" prete di campagna così intensamente illustrata da Bernanos nel romanzo che Bresson traspose in film, Diario di un parroco di campagna. Era una correzione dettata dalla profonda, intima e "tragica" coscienza della gravità dei processi di esclusione operata dalla borghesia. Il parroco di Bernanos e Bresson soffriva sulla pelle la "propria" esclusione; don Milani sentiva sulla sua pelle la esclusione "degli altri", in particolare quella della campagna e dei giovani di campagna, destinati ad essere inghiottiti dalla industrializzazione e dall'incremento della urbanizzazione. Se la sua era principalmente una azione di fede, ciò non toglie che le radici fossero incardinate nella realtà sociale.

Non è questa una facile interpretazione di tipo sociologico. Al contrario, la sociologia non c'entra quasi per niente. Don Milani aveva la intenzione di fare della sua vita un'opera e non viceversa; vale a dire era -a mio giudizio, sulla scorta delle letture fatte, ripeto- un intellettuale che adoperava la sua cultura per l'emancipazione di quanti poteva raggiungere. È interessante ricordare che don Milani si è sempre concentrato su piccoli gruppi di ragazzi. E non solo perché i provvedimenti punitivi della gerarchia lo portavano lontano, nella "periferia" dell'Italia; ma anche perché, in queste situazioni, poteva maturare una valutazione concreta, immediata, dei bisogni e quindi della possibilità di "amare" pochi giovani rispetto al mondo. Questo rapporto con la immediatezza, tuttavia, provocava una saldatura tra la personale esclusione e quella riscontrata nelle campagne, nei lontani borghi della montagna. Ne scaturiva una lucidità estrema e una cura attenta nel riflettere sulle esperienze compiute per renderle esemplari. Un lavoro da intellettuale isolato, pronto a sollevare questioni di grande rilievo (come il diritto alla non violenza), ma "poco politico" se alla politica si deve riconoscere una capacità di proiezione e di organizzazione delle "masse".

La componente individuale, e comunque non individualistica, è forse quella che ha colpito e sedotto le giovani generazioni nel Sessantotto e anche prima: don Milani, con la "Lettera ad una professoressa" scritta in collettivo, è diventato un punto di riferimento per gli studenti impegnati a trasportare fuori dalla scuola la loro protesta contro la borghesia. Ciò in nome di un radicalismo cristiano autonomamente in grado di "uscire" dal dibattito politico e culturale istituzionale con un richiamo specifico ad una sorta di "allargamento della coscienza", ma bisognoso di un linguaggio "credibile" per esprimersi, ed ecco l'uso del lessico marxista e quindi, successivamente, delle sue categorie di analisi. Nell'"allargamento" verso le classi emarginate e sfruttate, nella "marcia" della persona verso i propri simili che soffrono, è possibile rinvenire il fascino esercitato dal priore di Barbiana.

Niente di appiccicoso e clericale, niente di graduale e di solidaristico, nessun compiacimento apostolico. Ma una proposta, o meglio una ri-proposta culturale del Vangelo, e una critica della Chiesa come mondo chiuso a favore di una Chiesa che si apre al mondo e soprattutto verso chi ha bisogno. Un "allargamento" per capire meglio il mondo e avviare lenti processi di soluzione. Una rivoluzione nella profondità, con una intransigenza che lascia intravedere, da un lato, la polemica contro il "piano" della borghesia di servirsi di tutto, e in particolare della cultura, per protrarre la sua egemonia; e dall'altro lato, una sfiducia nella politica minacciata dalla burocratizzazione. Nei due film la biografia, starei per dire l'agiografia, si mangia queste problematiche e non sviluppa alcun tentativo di inte[r]pretazione seria. Non voglio sostenere che i registi avrebbero dovuto fare da "critici" di don Milani e del suo pensiero ma soltanto ricordare che non basta toccare alcuni nodi e privilegiare gli aspetti più toccanti e, perché no?, edificanti per soddisfare l'obiettiva richiesta di conoscere da vicino le vicende di un prete scomodo e, purtroppo, incompreso dal cinema.

 

DON MILANI OTTO ANNI DOPO

di Guido Zappa

Studium, n° 5, 1975, pagg. 697-715

Dal verde Mugello, la stradina procede lungo le pendici del Monte Giovi. Il paesaggio si fa sempre più aspro, la via sempre stretta e scabrosa; la mia vecchia '500 s'arrampica a fatica. Finalmente arriviamo ad uno spiazzo: una piccola chiesa e tre o quattro case, tutte disabitate. Incontriamo altri due visitatori, venuti anch'essi da Firenze. "Siamo a Barbiana?" chiediamo. "Sì". "Dov'è il cimitero?". "Laggiù". È un piccolo cimitero, di pochi metri quadrati; tombe in gran parte antiche, ormai trascurate. Solo qualcuna risale all'ultimo decennio; una di queste risalta. Una grande croce bianca di pietra, e una lapide in terra; una semplicissima epigrafe: "Sac. Lorenzo Milani. N. 27-5-1923. M. 26-6-1967. Priore di Barbiana dal 1954".

La figura di Don Milani è largamente nota, e quindi sembrerebbe quasi inutile ricordare gli eventi principali della sua vita. Comunque lo farò, sia pure in forma molto succinta, perché il lettore possa meglio orientarsi. Si tratta, del resto, di una vita che, negli aspetti esteriori, non presenta avvenimenti sensazionali. Egli nacque a Firenze il 27 maggio 1923 da una famiglia di intellettuali. La mamma, Alice Weiss, era di origine ebraica. Don Milani ricevette un'educazione essenzialmente laica. Nel 1930 la famiglia si trasferì a Milano, dove egli compì gli studi secondari e successivamente si dedicò alla pittura iscrivendosi nel 1941 all'Accademia di Brera. Ma nel novembre del 1942, a causa della guerra, la famiglia tornò a Firenze. Le inclinazioni artistiche del giovane Lorenzo lo spinsero ad interessarsi della pittura sacra e della liturgia. Per questo, egli si avvicina al cattolicesimo. Diviene amico di don Raffaele Bensi, una bella figura di sacerdote fiorentino che divenne in seguito il suo direttore spirituale. Si narra che proprio in occasione di un incontro con don Bensi egli prese la decisione di divenire sacerdote. Precisamente, raccontano che egli, in un giorno del 1943, recatosi da don Bensi, lo trovò che stava per recarsi in una parrocchia di campagna che era stata bombardata. Raggiunta insieme questa parrocchia, videro il giovane parroco morto in mezzo alle macerie. Lorenzo Milani esclamò subito: "Io prenderò il suo posto".

Entrò nel seminario di Firenze nel novembre del 1943, e fu ordinato sacerdote nel luglio 1947. Fu inviato come viceparroco a S. Donato di Calenzano, nei pressi di Prato. Nel 1954, alla morte del parroco di S. Donato, fu trasferito in una piccola parrocchia di montagna, a Barbiana, nel Mugello, e lì rimase sino a poche settimane dalla morte, avvenuta a Firenze, per leucemia, il 26 giugno 1967.

Per comprendere la figura di don Milani bisogna seguirlo nei suoi libri: Esperienze pastorali (1958), Lettera ai Cappellani militari (1965), Lettera ai giudici (1966), Lettera a una professoressa (1967); e nelle raccolte postume delle sue lettere: Lettere di Don Lorenzo Milani, priore di Barbiana (1970), Lorenzo Milani - lettere alla mamma, 1943-1967 (1972). Noi fisseremo l'attenzione in modo particolare su quest'ultima opera, che, per il carattere confidenziale delle lettere in essa contenute, svela alcuni aspetti del nostro meno conosciuti. Tali lettere ci daranno modo di percorrere tutti gli avvenimenti principali della vita di don Milani, dal suo ingresso in seminario sino alla morte.

È naturale che i familiari di don Milani temessero che egli potesse pentirsi della sua decisione di farsi prete; che in seminario egli potesse rimpiangere la sua perduta libertà. Ma egli si affretta a rassicurarli. Scrive infatti in una lettera alla mamma del 14 marzo 1944: "Mi dispiace che tu senta il peso della mia mancanza di libertà. Ma non ci pensare perché io non ne sento punto. Quando uno liberamente regala la sua libertà è più libero di uno che è costretto a tenersela. Chi regala la sua libertà si libera dal peso di portarla... Io per esempio mi sono preso tutte le libertà possibili immaginabili e poi mi sono accorto che c'era una grande cosa (la più grande) che non potevo fare. Prima di morire mi voglio prendere anche questa libertà di dir Messa". In un'altra lettera (3 aprile 1944) arriva ad esaltare l'abito talare. "È un vestito più logico più naturale più vero e prova ne sia che in duemila anni e più non è cambiato mentre quello della borghesia cambia tre volte entro una generazione e non ha niente di logico".

Nel frattempo, egli si chiede se nella formazione del sacerdote non si dia troppo campo allo studio, a scapito di altri elementi di formazione. Nella stessa lettera, scrive: "Al Seminario Minore ho discusso un'ora e mezzo a solo finalmente con Don Bartoletti, uomo e prete di una levatura eccezionale. E poi ho seguitato la discussione coi compagni per la strada e col sig. Rettore nel suo studio cosicché dopo 3 giorni di silenzio in un pomeriggio ho parlato tanto che mi sono trovato la sera col classico mal di stomaco che mi viene in simili circostanze. Si discuteva del posto che il prete deve dare allo studio e se è proprio necessario che il prete sia un intellettuale e se non è questo che ci ha perso al completo la classe operaia".

La perdita della classe operaia! Questo problema, rimasto un po' in eclisse durante il ventennio fascista, si poneva in quegli anni in tutta la sua gravità alla Chiesa italiana. Don Milani sentì questo problema in pieno, e lo affrontò non con la freddezza dello studioso, ma con tutta la passione del suo cuore sacerdotale, che mirava alla comprensione amorosa dell'uomo, del singolo uomo. Il motivo sopra indicato è ripreso in un'altra lettera (21 aprile 1944): "Ne ho fatte certe accanite discussioni con Don Bartoletti il quale è un uomo di grande valore, ma per essere prete a posto ha dovuto studiare teologia, per essere teologo ha dovuto farsi delle belle basi in Scrittura, per la Scrittura è dovuto diventare un orientalista ecc. Finché si arriva a domandarsi: ma dopo tutto questo sarà un prete a posto? Lui dice di sì, io dico di no". Questo si domandava don Milani nell'ambiente del seminario in cui si diffondeva l'interesse per le questioni sociali. Dice infatti, nella lettera del 17 aprile 1944: "Ieri si è cominciato tre giorni di questioni sociali... Hanno composto e parolato inni operai a due voci e ce ne hanno dato gli spartiti e si cantano prima delle conferenze che sono state due ieri due oggi e tre domani".

Ancora qualche altra lettera del '44, ove si sente il dramma della guerra che si avvicina a Firenze, poi si salta al 6 gennaio 1946 (alcuni pacchi di lettere erano andati perduti). Lorenzo è alla vigilia della sua consacrazione a suddiacono, e scrive al babbo: "Poi visto che ci sono profitto dell'occasione per parlarti del suddiaconato. Vorrei il vostro esplicito permesso e consiglio e che sappiate bene cosa importa. È un impegno definitivo che mi prendo con Dio, con me stesso e con una grande società umana. Ha il valore di voto, cioè non me ne dispensa neanche il papa. Mi impegno alla fede, al celibato, all'ufficio quotidiano (breviario), all'obbedienza al vescovo e al servizio della chiesa fiorentina. Tutto questo lo sto già praticando da due anni e mi ci trovo bene. lo per me non ho dubbi e neanche D. Bensi e D. Giovanni che se ne intendono. E neanche i superiori esterni pare. Così mi pare di non stare facendo un'altra bambinata. Dimmi ancora cosa ne pensi te e la mamma (non per posta!!)".

Di qui appare la serietà e l'impegno con cui egli affrontava la via del sacerdozio. A tale impegno egli rimase fedele, con piena partecipazione, sino alla fine.

Nel luglio del '47 egli fu ordinato sacerdote. Dopo qualche mese passato a Montespertoli, presso cui era una tenuta della sua famiglia, fu nominato, nell'ottobre dello stesso anno, cappellano presso la parrocchia di S. Donato di Calenzano, grosso borgo vicino a Prato. Il proposto era don Daniele Pugi, che dalla mamma di don Milani è detto: "illuminatissimo vecchio prete che ha sempre tentato di capire Lorenzo e lo ha costantemente appoggiato verso l'esterno anche se le nuove idee e iniziative di Lorenzo non sempre erano conformi alle sue abitudini".

All'arrivo a S. Donato, don Milani è accolto a festa: "Ieri sera sono arrivato che pioveva, ma c'era sotto l'acqua una quindicina di ragazzi e giovanotti ad aspettarmi e che mi hanno accompagnato in corteo fino a casa e poi si sono attaccati alla campana e hanno suonato un gran doppio a distesa per annunciare l'arrivo del tanto atteso cappellano". Ma, dopo pochi mesi, l'aspetto è cambiato. Scrive il 22 luglio 1948: "La gente sempre più vile e cattiva. Se non lo si sapesse già in partenza che il nostro è il mestiere dei fiaschi ci sarebbe da scoraggiarsi. Tutto casca, tutto muore, tutto s'arena e ci vuol fede nel pigliare iniziative nuove e far finta di non sapere che tra sei mesi saranno morte anche quelle".

Ma egli si sforzava di essere sempre disponibile verso tutti, pronto a partecipare alle sofferenze di ognuno dei parrocchiani. Scrive il 29 agosto 1949: "La gente pretende (giustamente) da noi che si sia sempre ‘presenti’ alla loro tragedia. Ci vogliono magari male, ma hanno ancora una così alta stima del sacerdozio che quando arrivano col loro problema (interno o esterno che sia) non possono sentirsi dire: "è a tavola" o "è a letto" o "è in ferie" senza sentirsi offesi dal contrasto colla gravità (per loro) dei loro problemi. Io sono sereno solo quando sono sempre ‘intonato’ con ogni evenienza. Cioè quando il mio pensiero o attività non stona con nulla d'altrui che possa accadere. Io smisi di fare il pittore solo per questo. Una sera C. si interessò enormemente alle mie chiacchiere sull'arte e la mattina dopo non glie ne interessò più punto perché il suo bimbo aveva fatto un po' di sangue dal naso".

Da altre lettere appare in concreto questa sua totale disponibilità per gli altri. Questo giovane prete aveva colto in pieno e viveva con intensità il punto essenziale del Cristianesimo. "Ho assistito per molti giorni e poi fino al tocco di notte un moribondo che non faceva la pace con Dio da 40 anni" (22 luglio 1948). "Mi è morto Dario di tetano. Forse ora non lo ricorderai, ma era uno di quei 4 fedelissimi bambini senza babbo. È successo a Querceto, sicché sono andato lassù e ci sono stato ininterrottamente 48 ore facendogli da babbo da mamma da prete da infermiere" (5 agosto 1950).

A S. Donato don Milani dà inizio ad una attività che caratterizzò in modo notevole la sua figura: la scuola popolare.

Per capire come funzionasse la scuola popolare di don Milani a S. Donato, occorre leggere le pagine di Esperienze pastorali. Don Milani avverte lo stato di arretratezza culturale dei suoi parrocchiani; egli vede come l'ignoranza sia la causa prima dei loro mali. I poveri non riescono a far valere i loro diritti perché mancano del linguaggio occorrente per discutere da pari a pari con i borghesi. La loro ignoranza li ha chiusi in una religiosità del tutto formale, che rende impossibile, da parte del sacerdote, l'i[n]staurazione di un dialogo capace di penetrare nelle anime, di mirare ai valori essenziali della dottrina di Cristo. È dovere del Sacerdote, secondo don Milani, aiutare i giovani ad uscire da questa ignoranza. Alla scuola vengono ammessi tutti i ragazzi che lo desiderino, indipendentemente dal loro atteggiamento religioso o dalla loro fede politica. Nel volume Lettere alla mamma è riportata la minuta di una lettera (forse mai spedita) al Cardinale Arcivescovo, datata 29-4-53; in essa don Milani difende il suo operato da accuse che erano state fatte nei suoi riguardi presso la Curia. A proposito della scuola popolare egli scrive: "La grandissima maggioranza dei giovani ha frequentato la nostra Scuola Popolare. Comunisti e democristiani han seduto per sei anni sugli stessi banchi sotto l'influsso profondo di un prete che non ha fatto nulla per vincerli ma neppure per convincerli. Così è per molti caduto il muro della divisione, per quasi tutti l'idolatria dei partiti e dei giornali, in tutti cresciuta la stima per l'oggettività inattaccabile di quel prete. Mi si accusa di non avere in classe il Crocifisso e che in classe non parlo mai ex professo di religione. Prima di trovarci a ridire bisognava esaminare con serenità gli scopi e i risultati. Il numero dei giovani che frequentano i Sacramenti e il loro venirci da sé senza organizzazione né invito né occasione festiva o periodica, prova che l'influenza della scuola è stata profondamente religiosa anche senza quel contorno esteriore" .

Si incomincia a intravedere la natura del contrasto che stava sorgendo tra don Milani da un lato e gran parte del mondo ecclesiastico fiorentino dall'altro: l'atteggiamento di fronte ai partiti politici, e in particolare al Comunismo. In una lettera del 13 agosto 1949 egli parla di una vivace discussione con alcuni confratelli del Vicariato sul problema del negare o meno i sacramenti, e in particolare il matrimonio, ai comunisti. Una più grave questione sorse nel 1951. In quell'anno si tennero le elezioni amministrative a Calenzano; le istruzioni dei vescovi della Regione toscana del 20 maggio 1951 (riportate parzialmente nella sopra menzionata minuta della lettera di don Milani al Cardinale Arcivescovo) stabilivano che "Gli elettori per grave obbligo di coscienza devono votare per quei candidati o liste di candidati che sapranno difendere i diritti di Dio, della Chiesa, della Famiglia Cristiana". A Calenzano si presentarono due sole liste: una del PCI e PSI, l'altra degli altri partiti (presumibilmente, DC e partiti di centro). L'elettore, in base alla legge allora vigente per i comuni con meno di 10.000 abitanti, poteva votare per una lista, oppure per singoli candidati scelti dalle varie liste. Don Milani sostenne pubblicamente che, poiché non tutti i candidati della lista contenente la DC davano a suo giudizio le garanzie richieste dalle istruzioni dei Vescovi, l'elettore cattolico dovesse dare il voto ai singoli candidati (che offrissero tali garanzie) e non a tutta la lista. Ma, secondo quanto risulta dalla suddetta minuta, il Cardinale mandò a chiamare don Milani e gli ordinò di tacere. Don Milani, anche su consiglio della mamma, per non creare scandalo, partì per l'estero, e non partecipò alle votazioni.

Da una lettera del 14 luglio 1952 si comprende come successivamente i contrasti tra don Milani e l'ambiente ecclesiastico circostante si fossero ulteriormente accentuati. E' una delle lettere più notevoli per l'elevatezza dei concetti e dei sentimenti professati. "Ieri ho fatto una leticata che forse sarà decisiva. Con un canonico di Prato che era qui a predicare. Ho l'impressione che la mia carriera ecclesiastica stia precipitando. Ma te non cominciare a allarmarti, te devi preoccuparti solo ch'io sia sereno e buono. E sereno sono... Ti ricordi come rispose Simone Weil al superiore che minacciava di destituirla? "Ho sempre considerato la destituzione il naturale coronamento della mia carriera scolastica"". Don Milani continua la lettera dicendo che egli sarà certamente allontanato da S. Donato alla morte del Proposto, e comunque prima delle prossime elezioni (del 1953). "Comunque per me non c'è nessuna possibilità di restare qui. Sono decisissimo a non difendermi e a non lasciarmi difendere da amici... L'unica cosa che mi farebbe veramente male sarebbe che mi condannassero dottrinalmente. Ma questo non dovrebbe poter avvenire perché ho sempre guardato d'esser cristiano e cattolico e ho sempre chiesto di morire in questa fede. E del resto mi ci sento ogni giorno più vicino tant'è vero che mi dedico tutto alla sua diffusione e tutta la divergenza sta sul modo di diffusione... Io sono grato al Signore d'ogni minuto di più che mi lascia a S. Donato perché son tutti regalati. Te non ti dar pensiero perché sai che mi son sempre trovato bene da per tutto. A andar male male mi potranno mettere maestro al Seminario Minore. E 6 mesi dopo mi leverebbero anche di lì e mi farebbero parroco in una chiesetta di montagna così saranno accontentati anche i tuoi desideri medici. Mi dedicherò al catechismo e agli studi e avrei modo di raffinare nella solitudine la mia spiritualità che ne ha urgente bisogno!".

Don Milani poté rimanere a S. Donato sino al 1954, cioè sino alla morte del Proposto. Ma allora si verificò, sia pure in parte, ciò che aveva preveduto. Non fu mandato al Seminario Minore, bensì direttamente parroco in montagna, a Barbiana. Così la descrive la mamma in una nota a piè di pagina: "A 7 chilometri da Vicchio nel Mugello. C'è una chiesa del Trecento, una canonica e qualche casa sparsa nei boschi. Mancava allora l'acqua, la corrente elettrica, la strada, il servizio postale. Per i primi anni le lettere arrivavano a Barbiana quando qualcuno le andava a prendere a Vicchio". Si trattava di una parrocchia di poche decine di anime, abitata da contadini e pastori, in via di spopolamento. Si sarebbe detto proprio il posto meno adatto per un uomo della cultura e della levatura intellettuale di don Milani. Tuttavia, proprio da questo posto sperduto, egli ha saputo svolgere un'attività destinata a lasciare segni profondi nella cattolicità italiana. Qualcuno potrebbe vedervi una specie di nemesi storica, ma è meglio cogliervi l'azione della Provvidenza che dalle cose più piccole trae i frutti più grandi.

A coloro (la mamma, don Bensi, il suo amico giudice Giampaolo Meucci) che cercavano di consolarlo prospettandogli la possibilità di una prossima migliore sistemazione, don Milani rispondeva dichiarando che essi non lo comprendevano. Scriveva infatti alla mamma il 28 dicembre 1954: "Non posso però credere che tu desideri che io mi metta nello stato d'animo del passante o del villeggiante. Don Bensi e Meucci mi hanno scritto lettere molto simili alla tua. Si vede proprio che non vi siete resi conto di quel che è stato S. Donato per me. Se no non avreste la crudeltà di parlarmi della prossima amputazione proprio nei giorni in cui sono convalescente di quella che mi ha lasciato vivo per un miracolo di grazia".

Egli infatti si mise all'opera a Barbiana con tutte le sue forze, e in breve la trasformò materialmente e moralmente. Aiutato da alcuni giovani di S. Donato e poi dai Barbianesi, riuscì a sistemare la strada di accesso a Barbiana in modo che vi giungessero le macchine. E tanti tanti altri miglioramenti seppe realizzare, atti a diminuire l'isolamento del paese e a renderlo meno inospitale. Tutto ciò si deduce dalle lettere degli anni seguenti, assieme con la descrizione dell'arretratezza della vita dei montanari (in inverno, sotto la neve, la zona restava completamente isolata), della loro miseria ed anche un po' della loro chiusura mentale e diffidenza, causate dall'abbandono in cui erano lasciati da parte dei pubblici poteri. Ma l'opera più bella fu la scuola popolare, che subito prese a realizzare e che ebbe un successo grandissimo. La situazione era molto diversa che a S. Donato. Non giovani operai già aperti a molti problemi, ma poveri ragazzi di montagna, che nulla conoscevano all'infuori del duro lavoro della terra e della deprimente vita del pastore.

Egli riuscì, adeguandosi al livello culturale dei suoi piccoli allievi, a creare in essi una gran sete di sapere e di progresso. Si trattava di una scuola a tempo pieno nel più ampio senso della parola. I ragazzi più avanzati nello studio contribuivano a loro volta ad istruire gli ultimi arrivati. Ciascuno insegnava e imparava nello stesso tempo. La fama della scuola di Barbiana si estese a tal punto che anche da altri centri abitati accorsero ad essa numerosi ragazzi.

Intanto don Milani stava preparando il libro che doveva diffondere la sua fama ben oltre i confini della diocesi e creare attorno alla sua persona tante polemiche: Esperienze pastorali.

Durante la sua permanenza a S. Donato, egli aveva raccolto un vasto materiale relativo alla religiosità, all'istruzione, all'indirizzo politico, ai problemi materiali (lavoro, casa, esodo) del popolo della parrocchia. Questa documentazione fu poi sistemata da lui a Barbiana e raccolta in detto volume, assieme ad un giudizio sostanzialmente negativo sopra i metodi pastorali usati dalla maggioranza dei suoi confratelli e alle sue proposte di nuovi atteggiamenti e nuovi sistemi.

Il volume ha un tono apocalittico. È dedicato "ai Missionari Cinesi del Vicariato Apostolico d'Etruria". Egli immaginava cioè che la cristianità occidentale sarebbe stata presto travolta e cancellata dalla rivolta dei poveri, e che, solo tra mille anni, dalla lontana Cina, ove la Chiesa sarebbe riuscita a sopravvivere, sarebbero giunti a Firenze "in partibus infidelium" alcuni missionari per predicare di nuovo la parola di Cristo. Il volume si chiude appunto con una lettera ai missionari cinesi, firmata "un povero sacerdote bianco della fine del II millennio". Dice fra l'altro la lettera: "Non abbiamo odiato i poveri come la storia dirà di noi. Abbiamo solo dormito. È nel dormiveglia che abbiamo fornicato col liberalismo di De Gasperi, coi congressi eucaristici di Franco. Ci pareva che la loro prudenza ci potesse salvare... Insegnando ai piccoli catecumeni bianchi la storia del lontano 2000 non parlate loro dunque del nostro martirio. Dite loro solo che siamo morti e che ne ringraziamo Dio. Troppe estranee cause con quella del Cristo abbiamo mescolato. Essere uccisi dai poveri non è un glorioso martirio...".

Il libro è una serrata critica ad alcuni metodi di apostolato, basati sull'attrazione dei giovani mediante lo sport, la ricreazione, il cinema parrocchiale, etc. Egli vede in ciò una forma di diseducazione, di alienazione dai valori essenziali. In contrapposto, egli esalta il valore della scuola popolare. Egli vede nella cultura (una cultura non staccata dalla vita) il principale mezzo di elevazione dei poveri, e quindi indica tra i compiti del sacerdote quello di promuovere la scuola popolare.

D'altro lato egli critica anche l'anticomunismo e l'interclassismo, a suo giudizio eccessivi, manifestati dalla Chiesa in Italia in quel periodo, nonché l'appoggio fornito alla Democrazia Cristiana e la compromissione con le organizzazioni padronali attraverso i Comitati civici. Specie in Toscana, ove il marxismo ha lontane radici, si era diffusa nell'immediato dopoguerra, negli ambienti popolari, una grande speranza di liberazione; tale liberazione era vista dai più come legata al trionfo dei partiti marxisti, e del Comunismo in primo luogo. La vittoria della Democrazia Cristiana del 1948 era apparsa ad essi come il tramonto di questa speranza e l'appoggio della Chiesa alla Democrazia Cristiana, nel giudizio semplicistico di molti, poteva apparire come un tradimento della causa dei poveri. Don Milani non risparmia le sue critiche al Partito Comunista, i cui dirigenti, in gran parte, neanche appartengono alle classi popolari, ma ritiene necessaria un'estrema delicatezza nell'affrontare questi problemi coi poveri. Un episodio appare significativo al riguardo. Alla scuola popolare di S. Donato, ogni venerdì veniva a parlare qualche eminente personalità del mondo cattolico fiorentino, su invito dello stesso don Milani. Ma ad un oratore (il prof. Gozzini) che aveva proposto il tema: "Cristianesimo e Marxismo" egli replica (lettera del 9 novembre 1953 nel volume: Lettere di Don Lorenzo Milani priore di Barbiana) che l'argomento è talmente delicato e qualcuno degli uditori così suscettibile su questo punto, da sconsigliare tale tema per un conferenziere che non conoscesse l'ambiente. Dice don Milani: "Il comunismo me lo riserbo a me solo e non perché io sia migliore di lei o abbia un pensiero più alto o più bello, ma solo perché son di casa e conosco il luogo il momento e il muso dei ragazzi".

Val la pena di citare anche una pagina contenuta nell'appendice seconda di Esperienze pastorali. Si tratta di una lettera a un ipotetico "Don Piero", lettera che avrebbe dovuto essere pubblicata a parte nel 1954 e che finì poi invece come appendice al volume. Don Milani vi narra le vicende del licenziamento di un giovane parrocchiano, Mauro, da parte di un padrone esoso e immorale. Egli teme che Mauro un giorno abbandoni la Chiesa. Dice don Milani: "Penso ora che è ancora troppo dono di Dio che io l'abbia ancora qui [Mauro] a domandarli a me i suoi perché. So che è 1'ultimo giorno. Domani non verrà più. C'è un altr'uscio, non lontano dal mio, dove c'è qualcuno che saprà dargli le risposte che attende. C'è qualcuno che per un po' di lavoro, un po' di casa, un po' di aumento, un po' di giustizia umana, per queste quattro stupide cose umane che io non ho saputo riconoscergli a tempo gli ruberà la fede. Se quel qualcuno avesse almeno una dottrina più bella della nostra, starei zitto. Ma la dottrina del comunismo non val nulla. Una dottrina senza amore. Una dottrina che non è degna di un cuore di giovane. Avesse almeno realizzazioni avvincenti. Ma nulla. Uomini insignificanti, un giornale infelice, una Russia che a difenderla ci vuol coraggio. E io dovrei farmi battere da così poco? Io che ho una dottrina che pare fatta apposta per incendiare un cuore di giovane. Una dottrina che per secoli ha portato migliaia di giovani al martirio e al chiostro, sorridenti?".

La visione di una prossima rivolta dei poveri che travolgerà la società attuale, e le cui motivazioni saranno fraintese perché i poveri non sanno usare il linguaggio per sostenere i loro diritti, si ricava anche in altri scritti di don Milani della stessa epoca. Si veda ad esempio la famosa lettera a Giampaolo Meucci del 30 marzo 1956. Dopo aver narrato la storia di un contadino, di nome Adolfo, ingannato da un padrone appartenente ad una "famiglia universitaria" la quale per trecento anni ha potuto dedicarsi agli studi e alla ricerca grazie al lavoro duro dei suoi contadini, don Milani esclama: "Ma domani, quando i contadini impugneranno il forcone e sommergeranno nel sangue insieme a tanto male anche tanti valori di bene accumulati dalle famiglie universitarie nelle loro menti e nelle loro specializzazioni, ricordati quel giorno di non fare ingiustizie nella valutazione storica di quegli avvenimenti. Ricordati di non piangere il danno della Chiesa e della scienza, del pensiero o dell'arte per lo scempio di tante teste di pensatori e di scienziati e di poeti e di sacerdoti. La testa di Marconi non vale un centesimo di più della testa di Adolfo davanti all'unico Giudice cui ci dovremo presentare".

L'apparizione di Esperienze Pastorali provocò un terremoto negli ambienti cattolici italiani. Il libro uscì nel 1958, con la prefazione di Mons. Giuseppe D'Avack, arcivescovo di Camerino, e l'imprimatur del Cardinale Elia Dalla Costa, arcivescovo di Firenze. Subito si levarono da tutte le parti giudizi favorevoli o contrari al libro. Dice don Milani nella lettera del 26 maggio 1958 alla mamma: "Mi è arrivata una lettera di don Mazzolari (quello di "Adesso") che dice che non ha potuto arrivare alla fine perché preso da una incontenibile voglia di buttarmi le braccia a1 collo... Don Nesi mi ha detto che i soliti preti sono già andati dal Cardinale col mio libro, ma che il Cardinale è stato irremovibile. Ha piena fiducia in me e non intende revocare la sua decisione".

Poi cominciano le recensioni stroncatorie ("Settimana del clero", "Civiltà cattolica"). Si monta via via la campagna contro di lui. In una lettera alla mamma del 16 novembre 1958 don Milani scrive: "Sabato sera è arrivato un prete veneto che fa da segretario al Cardinale. lo non lo conoscevo. Dice che il Cardinale prima del Conclave era tranquillissimo, ma che tornato da Roma è tutto agitato e riceve anche lettere anonime e non anonime che lo coprono d'insulti per avermi dato l'imprimatur".

Alla fine il S. Uffizio ordinò che il libro venisse ritirato dal commercio. Oggi esso però è di nuovo in circolazione, e si trova molto spesso sui banchi della "Buona stampa". A giudicare col metro di oggi, non si capisce proprio la ragione di una condanna così grave. C'è un certo classismo, ma c'è anche un profondo attaccamento alla Chiesa; e ben difficilmente altrove può trovarsi vissuto con tanta intensità il dramma dell'allontanamento delle classi umili dalla Chiesa, compreso nei suoi motivi di fondo con eccezionale penetrazione psicologica, sofferto profondamente in un amore vivissimo per la Chiesa e per i poveri.

La condanna del S. Uffizio provocò, naturalmente, un'improvvisa e vasta pubblicità al libro e al suo autore. Carovane di giornalisti delle diverse parti politiche si riversano su Barbiana. Alcune lettere alla mamma mettono in luce la fatica e l'imbarazzo di don Milani per queste visite. "Insomma una vita snervante, e dovrò proprio chiedere il trasferimento a una parrocchia più piccina. Con i comunisti sono stato durissimo. Con gli altri no. Comunque non dipende da me, ma dal S. Uffizio se il chiasso è aumentato". Qualche mese dopo, una lettera di Mons. D'Avack reca un po' di conforto a don Milani. Gli scrive, tra l'altro, l'Arcivescovo di Camerino, riferendogli su un'udienza privata di Papa Giovanni: "Il Papa, di sua iniziativa, mi parlò di lei con grande paterno affetto, mi fece anche un grazioso predichino sulla 'prudenza' (che riguardava soprattutto me)".

A questo periodo (1959) risale anche una lettera che don Milani aveva preparato per "Politica", rivista democristiana di sinistra, e che allora non fu pubblicata. Apparve postuma su "L'Espresso" nel 1968, e si può leggere nelle citate Lettere di Don Lorenzo Milani raccolte dai suoi allievi. La lettera, intitolata "Un muro di foglio e di incenso", prende lo spunto da un'intervista del Card. Ruffini ad un quotidiano torinese riguardante la Spagna di Franco, e sostiene che il dovuto ossequio al Magistero della Chiesa non deve andare disgiunto dalla critica alle affermazioni di uomini di Chiesa, anche in posizione molto elevata, le quali non risultino vincolanti. Anzitutto perché un ossequio senza limiti a tutte le affermazioni di alti prelati è un ostacolo al ritorno dei lontani ("Si può avvicinarsi alla Chiesa se essa con rigore dogmatico chiede al neofita solo ciò che ha il diritto di chiedergli. Non a una Chiesa in cui si debba sottostare giorno per giorno alle opinioni personali e agli umori di ogni cardinale. Noi la Chiesa non la lasceremo perché non possiamo vivere senza il suo Insegnamento. Accetteremo da lei ogni umiliazione... ma ce lo dovrà dire il Papa con atto solenne che ci impegni nel Dogma"). Inoltre, la critica è un dovere di carità verso gli alti prelati ("Abbiamo mostrato che la critica ai cardinali e ai vescovi è lecita, diciamo ora addirittura che è doverosa: un preciso dovere di pietà filiale. E un nobile dovere anche, proprio perché adempierlo costa caro"). A causa della reticenza della stampa cattolica e del silenzio ossequiente di coloro che li avvicinano, spesso gli alti prelati, secondo don Milani, finiscono con l'ignorare, o col non valutare in giusto modo molti fatti; finiscono con l'essere prigionieri "nell'informazione reticente e nell'ossequio vile... Se non gli sbraneremo il muro di carta e non gli dissolveremo il muro d'incenso Dio non ne chiederà conto a loro ma a noi".

Nel 1963, don Lorenzo si trovò in nuovi contrasti con la Curia, la quale gli aveva proibito mediante un telegramma di partecipare ad un convegno organizzato dal sindaco socialista di Calenzano e riguardante l'istituzione di un doposcuola comunale. Don Milani soffrì molto per questa vicenda, soprattutto perché temeva che i suoi ragazzi lo considerassero non pienamente fedele alla Chiesa. Aveva paura che la scuola apparisse "come la scuola personale d'un prete evangelico e non come la parrocchia d'un parroco cattolico almeno quanto il Vescovo di Firenze e probabilmente anche molto di più". Egli fece per tre mesi una specie di "sciopero da parroco" (precisamente, smise di spiegare il Vangelo durante la Messa la domenica, spiegandolo invece a scuola). Alla fine, grazie soprattutto, ancora una volta, alla mediazione di don Bensi, il Vicario generale della Diocesi venne a visitare la scuola di Barbiana, spiegando ai ragazzi il significato del telegramma di proibizione, rispondendo ad ogni loro domanda e lasciando un'offerta per la scuola stessa. Ma i contrasti con la Curia si ripeterono, sia per una nuova visita di don Milani a Calenzano, sia per una lettera di protesta scritta in seguito alla sostituzione del rettore del Seminario Maggiore.

Un più grave episodio, riguardante non la Curia, ma l'autorità civile, si ebbe nel 1965, a proposito di una riunione dei cappellani militari in congedo della Toscana. Questi, votarono un ordine del giorno sul tema dell'obiezione di coscienza, dichiarando fra l'altro di considerare "un insulto alla Patria e ai suoi Caduti la cosiddetta 'obiezione di coscienza', che, estranea al comandamento cristiano dell'amore, è espressione di viltà". Don Milani, dopo aver discusso coi suoi ragazzi tale ordine del giorno, preparò una Lettera ai cappellani militari toscani, che fu diffusa a stampa in forma di volantino e riprodotta parzialmente da vari giornali e per intero dal settimanale comunista "Rinascita". Possono essere diverse le posizioni di fronte al problema dell'obiezione di coscienza, ma accusare gli obiettori di viltà, in presenza di una legislazione, come quella di allora, che condannava l'obiezione e quindi sottoponeva gli obiettori a lunghe pene detentive, era del tutto assurdo, e pertanto più che giusta fu la reazione di don Milani. Egli voleva fornire ai suoi allievi idee chiare su questo punto e insegnare che occorre reagire a prese di posizione pericolose e capaci di ingenerare confusione e disorientamento. La lettera è fondata sul principio della dottrina cattolica in base al quale è doveroso disobbedire ad una legge quando ordina cose moralmente illecite.

Vi è anche un riesame della storia d'Italia a partire dal Risorgimento; molte delle guerre intraprese dall’Italia in tale periodo sono giudicate guerre di aggressione e quindi contrarie ai principi della attuale Costituzione Italiana. Alcuni dei giudizi di don Milani sono discutibili, ma costituiscono un'evidente reazione alla presentazione agiografica del Risorgimento, un tempo estremamente diffusa. La lettera dette luogo a numerose risposte, alcune di consenso, altre di dissenso e di insulto. L'Arcivescovo di Firenze gli scrisse, facendogli qualche rilievo sul contenuto della lettera e sulla strumentalizzazione a cui essa aveva dato luogo, e ordinandogli di sottoporgli, d'allora in poi, ogni eventuale suo scritto, prima di dargli pubblicità. Un gruppo di ex-combattenti denunciò alla Procura della Repubblica, per apologia di reato, sia don Milani che il direttore di "Rinascita" Luca Pavolini. Don Milani non si presentò al processo che fu tenuto a Roma. In una lettera al Cardinale scritta due giorni prima, dice: "Ho pensato bene di non andare a Roma oltre che per il motivo di salute anche per evitare la teatralità cui potrebbe dar luogo la mia presenza in aula e le possibili speculazioni comuniste". Non volle avere un difensore di fiducia, nonostante le offerte di vari avvocati, e pertanto ebbe solo un difensore di ufficio.

Inviò però una Lettera ai giudici, a difesa del proprio operato. Vi si riprendono i motivi della lettera ai cappellani, ma in tono più pacato e in modo più approfondito. Inquadrò la scrittura della lettera entro la sua opera educativa. "La scuola... siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. È l'arte di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità (e in questo somiglia alla vostra funzione), dall'altro la volontà di leggi migliori cioè il senso politico (e in questo si differenzia dalla vostra funzione)". Egli potrà dire ai suoi allievi solo che "essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate. La leva ufficiale per cambiare la legge è il voto. La Costituzione gli affianca anche la leva dello sciopero. Ma la leva vera di queste due leve del potere è influire con la parola e con l'esempio sugli altri votanti e scioperanti. E quando è l'ora non c'è scuola più grande che pagare di persona un'obiezione di coscienza".

II processo si chiuse il 15 febbraio 1966 con l'assoluzione, ma ci fu ricorso in appello. Questa volta ci fu condanna, ma don Milani era già morto.

L'ultima opera di don Milani è Lettera a una professoressa. O meglio, apparentemente non è opera sua, perché sulla copertina figura come autore la "Scuola di Barbiana". Il libro è uscito solo un mese e mezzo prima della sua morte, e quindi fu scritto quando egli era già gravemente ammalato e quasi sempre inchiodato al letto. Esso è frutto di un lavoro di équipe fatto insieme ai suoi allievi, (come del resto altri suoi scritti), ma presenta in modo nettissimo l'impronta della sua personalità.

La lettera prende occasione da alcuni infortuni scolastici di suoi allievi. Don Milani, come abbiamo detto, si era sempre più dedicato alla sua scuola, che vedeva come mezzo principe per l'elevazione culturale e sociale dei poveri ragazzi montanari tra cui viveva. Abbiamo già parlato del metodo personalissimo di insegnamento da lui adottato. La fama della sua scuola si era diffusa sempre più, e anche da altri paesi diversi ragazzi, i quali nelle scuole ordinarie non riuscivano ad andare avanti, accorrevano a Barbiana. Gli allievi di don Milani sostenevano poi gli esami nelle scuole statali, e a taluni di essi, a suo giudizio meritevoli della approvazione, capitò di essere bocciati. Don Milani ebbe delle polemiche con alcuni (o meglio alcune) insegnanti, e di qui partì lo spunto per la Lettera a una professoressa. Essa è appunto indirizzata ad una non meglio precisata insegnante che aveva bocciato alcuni ragazzi di Barbiana. Si insiste soprattutto sopra la grande inferiorità in cui si trovano, rispetto alla scuola di tipo tradizionale, i ragazzi provenienti da famiglie povere e incolte; si mostra come la bocciatura possa in taluni casi divenire quasi inevitabile in un tale tipo di scuola, e come la stessa bocciatura spesso porti ad un abbandono degli studi da parte dei ragazzi, e quindi venga praticamente a condannarli all'ignoranza. Lo scritto è in taluni punti un po' eccessivo; soprattutto perché sembra attribuire a molti insegnanti deliberati atteggiamenti favorevoli alle classi sociali economicamente e culturalmente elevate, mentre sarebbe più giusto parlare, nei riguardi di questi insegnanti, di preoccupazione di conservare alla scuola un adeguato livello culturale; solo indirettamente, e contro la loro stessa volontà, ciò può dar luogo, nell'assetto scolastico tradizionale, a forme di discriminazione. Da certe lettere sembra che don Milani si rendesse in parte conto di ciò. Ma, come altre volte, ha preferito dare al suo scritto un tono provocatorio, per poter meglio rompere l'atmosfera stagnante, fare una breccia nella mentalità corrente. Accanto a questi difetti, il libro ha incomparabili pregi, presentando l'ideale di una scuola in cui tutti sono messi in condizione di dare il meglio di se stessi; chi è più dotato viene in aiuto di chi è meno dotato, e il problema della bocciatura viene in un certo senso superato. Egli mette chiaramente in luce che ciò vale per la scuola dell'obbligo; nelle scuole superiori egli ammette la possibilità di bocciature. Spesso le parole di don Milani sono state utilizzate da studenti contestatori per chiedere in pratica una scuola facile; ma la scuola come la presenta lui è tutt'altro che facile, e richiede un impegno totale sia da parte del maestro che degli alunni. Lo scritto è diretto, apparentemente, ad un'insegnante, ma in realtà, come egli stesso avverte, egli ha di mira i genitori dei ragazzi poveri, perché prendano coscienza del diritto (non soltanto legale, ma anche reale) dei loro figli all'istruzione, e si organizzino in difesa di questi diritti. Il libro doveva avere una risonanza vastissima, ma di ciò non vi è quasi traccia nelle lettere, essendo don Lorenzo morto appena un mese e mezzo dopo la comparsa dell'opera.

Fin dal 1960 si accenna nelle lettere ai primi sintomi della malattia. Fu diagnosticata in seguito come linfogranuloma, a cui si aggiunse poi la leucemia. Le sofferenze divennero via via più acute, e negli ultimi mesi egli doveva restare quasi sempre a letto. Ma anche dal letto, continuò a far scuola, finché poté, agli amati ragazzi. Nel gennaio del '66, quando già le condizioni di don Milani si andavano aggravando, l'Arcivescovo di Firenze, oltre a trasmettergli un aiuto finanziario da parte del S. Padre, unendovi anche un contributo personale, gli inviò una lettera nella quale, scagionandolo ampiamente da ogni sospetto di eresia, ed esprimendogli sentimenti di stima e di affetto gli rivolgeva anche alcune critiche circa il suo comportamento (soprattutto circa il tono alquanto aspro delle sue polemiche e un certo "spirito classista e parziale". Gli faceva presente come l'essere rimasto per tanti anni a Barbiana era dipeso dal fatto che i suoi superiori avevano creduto di non riconoscere in lui "la necessaria disposizione alla carità pastorale, ma piuttosto lo zelo fustigatore". I raccoglitori delle Lettere di Don Lorenzo Milani narrano: "Quando arrivò questa lettera, la camera del Priore era piena di barbianesi e altri amici fiorentini. Quasi tutti eravamo lì perché era peggiorato e avevamo paura di perderlo per sempre. Come al solito, la posta fu letta ad alta voce; la lettera del Cardinale la lesse il Priore, stando seduto sul letto. Quando ebbe finito rimase zitto a testa bassa, baloccandosi con i peneri della coperta. All'improvviso cominciò a piangere forte. Poi alzò la testa, e rivolto agli amici fiorentini (due professori, un avvocato e un medico): "Fuori di qui!" urlò. "Siete stati voi ad ingannarlo. Andate a informarlo meglio!". Da quel giorno borghesi e intellettuali furono esclusi dalla scuola di Barbiana".

Atteggiamento, quest'ultimo, un po' sconcertante; esso però si spiega tenendo conto del fatto che egli sentiva via via scemargli le forze e voleva riservare ai suoi giovani le residue energie che gli rimanevano; inoltre egli riteneva essenziale liberare i poveri e i semplici dal complesso di inferiorità in cui si trovano soprattutto dal punto di vista culturale; infine, abituato da molti anni a vivere tra gli umili, e a sperimentare la loro linearità nelle scelte e la loro schiettezza, soffriva di fronte alla complessità e talora alla involontaria ambiguità degli intellettuali; alle difficoltà che essi incontrano nello sforzo di sposare una causa fino in fondo. Quest'atteggiamento del don Milani degli ultimi mesi si riscontra, ad esempio, anche in una lettera del 7-1-66 ad una studentessa napoletana, Nadia Neri: "Se vuoi trovare Dio e i poveri bisogna fermarsi in un posto e smettere di leggere e di studiare e occuparsi solo di far scuola ai ragazzi dell'età dell'obbligo e non un anno di più, oppure agli adulti, ma non una parola di più dell'uguaglianza e l'uguaglianza in questo momento deve essere sulla III media. Tutto il di più è privilegio". Naturalmente, vengono subito in mente tante obiezioni possibili a questa impostazione: ma per comprenderla bisogna introdursi nella sua vita e nella sua esperienza.

Anche nelle ultime lettere, si manifestano la delicatezza e la bontà del suo animo. Per esempio, in data 21-3-66, scrive a una zia gravemente ammalata e prossima alla morte: "Il sacramento della confessione è quella meravigliosa istituzione per cui il cristiano può vivere più sereno e ottimista degli altri: il male lo cancella con un colpo di spugna, il bene non lo cancella anzi l'accumula".

Nel marzo del '67 don Lorenzo, ormai molto grave, lascia Barbiana e si trasferisce a Firenze in casa della mamma. Qui muore il 26 giugno 1967. Per suo desiderio fu seppellito a Barbiana. I raccoglitori delle sue lettere terminano così: "Ora anche le ultime famiglie del popolo che erano rimaste lassù per mandare i figli a scuola, sono scese al piano. La scuola è chiusa. I ‘ragazzi’ sono sparsi per l'Italia e anche all'estero, impegnati nei sindacati e nella scuola. La domenica chi può sale a Barbiana a far visita al Priore".

A otto anni dalla morte, la figura di don Milani ha ancora tante cose da dirci; anzi di fronte ad una società che cambia così rapidamente, emergono in modo più chiaro alcuni valori che egli, con notevole anticipo, ha affermato, pur tra espressioni talora un po' paradossali ed estremiste.

Ad un osservatore superficiale egli potrebbe sembrare simile a coloro che oggi vengono detti "cattolici del dissenso". Ma un esame più attento della sua vita mostra come tale somiglianza in realtà non sussista. Nei cattolici del dissenso il legame con la Chiesa (per lo

meno, con la Chiesa-Istituzione) è piuttosto debole. Vediamo che diversi gruppi di cattolici del dissenso si rassegnano facilmente ad una sconfessione da parte delle autorità ecclesiastiche, finiscono praticamente a mettersi fuori della Chiesa (pensata come Istituzione); parecchi sacerdoti che fan capo a questi gruppi finiscono con l'accettare la pratica esclusione dall'esercizio del ministero, abbandonano il celibato ecclesiastico, etc. Nulla di tutto questo in don Milani. Egli accettò disciplinatamente il trasferimento a Barbiana, e, pur tra le critiche, talora anche pungenti, rivolte ai metodi di apostolato in uso ed agli atteggiamenti di alcuni superiori ecclesiastici, sentì sempre come esigenza preminente quella di rimanere in pieno nella comunione ecclesiale, e si dimostrò pronto a qualunque sacrificio personale pur di non venire meno ad essa.

Si rivive, nella vita di don Milani, un dramma che anche in altri secoli ha tormentato le coscienze di molti cattolici, ma che nella nostra epoca è stato sentito in modo particolarmente intenso: il contrasto tra l'obbedienza alla gerarchia e l'esigenza di illuminare la gerarchia stessa circa nuove esigenze e nuove aspirazioni che si manifestano nel mondo e in particolare nel mondo cattolico, e di cui d'altra parte sembra che la gerarchia stessa non sappia rendersi conto adeguato, non ne sappia cogliere gli aspetti positivi presenti assieme ad eventuali aspetti negativi. Si può non approvare la forma talora un poco provocatoria e paradossale degli interventi di don Milani; ma non si può non condividere, a questo riguardo, il suo atteggiamento di fondo: cioè la necessità di esprimere, se occorre anche pubblicamente, una posizione di dissenso da quella della gerarchia quando gravi ragioni lo richiedono; ma, nello stesso tempo, una piena obbedienza alla gerarchia stessa quando ci sia il pericolo di rompere, altrimenti, la comunità ecclesiale. La figura di don Milani è, su questo punto, di estrema attualità: essa ha molto da insegnare sia a coloro che si adagiano in una concezione del tutto tradizionale della fede senza impegnarsi nelle esigenze di rinnovamento, sia a quelli che, mossi da un'eccessiva ansia del nuovo, finiscono col rompere i legami con la gerarchia.

Inoltre si riscontra in don Milani una intelligenza profondissima della condizione dei poveri e degli oppressi, una piena partecipazione non solo ai loro problemi e alla loro vita ma anche alla loro forma mentis, fino allo spogliamento di sé e della propria sensibilissima raffinatezza intellettuale ed artistica. Pochissime persone, anche fortemente impegnate nella giustizia sociale, hanno saputo come lui cogliere fino in fondo tutti gli aspetti di inferiorità dei poveri, non solo quelli più appariscenti (ad esempio quelli economici) ma anche quelli più sottili e nascosti. Egli è riuscito come pochi a rompere la scorza di involontaria e per lo più subcosciente diffidenza da parte dei poveri nei riguardi di chi ha maggiori mezzi, maggior prestigio, maggior cultura, quindi spesso anche nei riguardi dei sacerdoti. Egli entrò fino in fondo nelle aspirazioni dei suoi poveri ragazzi di Barbiana, seppe rendere coscienti in loro anche molte esigenze inconscie, si immedesimò pienamente in esse, fino al punto da apparire talvolta ingiusto verso altre persone ed altre classi. Tale apparente ingiustizia era però frutto di un profondo amore per i suoi giovani. Anche oggi noi spesso rimaniamo feriti da alcune sue affermazioni che ci colpiscono, ci sembra, in parte ingiustamente. Ma non dobbiamo fermarci a questa impressione superficiale; dobbiamo saper cogliere il fondo di verità che è in esse, per potere esaminare il nostro operato e rettificarlo.

Don Milani, infine, ha saputo con molto anticipo individuare problemi che solo più tardi sarebbero affiorati in modo esplicito nella nostra società: si pensi, ad esempio, al problema dell'inadeguatezza delle strutture scolastiche ai fini di rimuovere le condizioni di profonda inferiorità culturale di vasti ceti popolari. La sua completa dedizione alla scuola di Barbiana è qualcosa di assai difficilmente ripetibile, ma nello stesso tempo di profondamente stimolante per tutti coloro che si impegnano nel campo dell'educazione. Egli resta una figura del tutto unica nella recente storia del cattolicesimo italiano. A diversi anni dalla sua scomparsa egli resta più che mai vivo, e continua ad affascinarci, e ad insegnarci tante cose in questo periodo così tormentato della società italiana e in particolare del cattolicesimo italiano.

 

NOTE

1 Don Enrico Bartoletti, allora docente nel Seminario, oggi Arcivescovo e Segretario generale della C.E.I.

2 Essendo io stesso un membro della Chiesa fiorentina, mi asterrò da ogni giudizio circa le vertenze tra don Milani e la Curia, limitandomi a riportare i fatti, così come si desumono dalle opere che prendo in esame.

 

 

 

 

UN INGLESE A BARBIANA

di Charles Walker

Rocca, Assisi (Perugia), 1° agosto 1992, pagg. 41-43

 

Subito dopo il Natale del 1965 visitai per la prima volta don Lorenzo Milani a Barbiana. Ero uno studente all'Istituto Beda di Roma. Da molto tempo ero un amico di famiglia di Clarice, la moglie inglese del fratello di don Lorenzo, il professor Adriano Milani Comparetti, medico specializzato nella cura di bambini spastici e portatori di handicap.

Adriano e Clarice mi avevano parlato di don Lorenzo e della sua scuola a Barbiana, ma io non ero ancora in grado di apprezzarne l'importanza. Dopo Natale, durante un soggiorno a Firenze, Adriano si offrì di condurmi a Barbiana per incontrare suo fratello. Con noi vennero anche le sue due figlie. Quando raggiungemmo Barbiana faceva buio, le due bambine si erano addormentate sul sedile posteriore dell'auto raggomitolate come cuccioli.

incontro la scuola

Per raggiungere Barbiana affrontammo la precaria carreggiata che don Lorenzo ed i suoi ragazzi avevano costruito fino alle case e la chiesa. Quando arrivammo un gruppo di ragazzi uscì dalla canonica, le due bambine vennero portate sulle spalle di loro ed io li seguii con Adriano. La comunità era al completo; don Lorenzo era attorniato dai suoi ragazzi. Mi fecero sedere e cercai di capire di che cosa si discutesse. Devo dire che il mio italiano era assai rozzo.

Improvvisamente don Lorenzo si volse verso suo fratello dandomi un'occhiata e disse "Lui chi è?". Adriano spiegò che io stavo studiando a Roma per diventare sacerdote cattolico dopo essere stato un pastore anglicano in Inghilterra. Senz'altra introduzione don Lorenzo mi domandò: "Perché hai cambiato?". Con un italiano incerto cercai di spiegare le ragioni della decisione più importante della mia vita. Non riuscii a dire molto prima che lui mi interrompesse. "Puoi parlare in inglese, qui la maggior parte dei ragazzi ti capirà". Per me questa fu la prima sorpresa della scuola di Barbiana.

Quella sera, prima di partire per tornare a Firenze, don Lorenzo mi aveva invitato a ritornare a Pasqua, cioè quando fossi stato ordinato sacerdote cattolico. Mi disse che avrei potuto aiutare a scuola insegnando inglese ad alcuni ragazzi. Quindi tornai a Barbiana per un lungo fine-settimana a Pasqua del 1966 e poi ancora a Pentecoste. Il paesaggio di Barbiana mi emozionava con la vista incantevole in ogni direzione. Fui commosso che vi fossero ricordi dei soldati inglesi uccisi in combattimento sulla Linea Gotica, durante gli ultimi episodi della seconda guerra mondiale.

Delle case rurali circostanti alcune erano abbandonate, ma un discreto numero di esse erano ancora occupate e davano alloggio ai ragazzi di don Lorenzo. Gli edifici della parrocchia erano semplicissimi. La signora Eda, già parrocchiana di don Lorenzo a Calenzano, cucinava e si occupava della casa; Adele, professoressa di lettere in una scuola della valle del Mugello, passava tutto il suo tempo libero a Barbiana, aiutando don Lorenzo nella scuola e facendogli da emissario di fiducia per le questioni esterne.

Tutte le mattine alle 8 i ragazzi si riunivano alla canonica dai casolari dove alloggiavano. Alcuni di loro erano del posto, altri erano stati messi a scuola da genitori di Calenzano, Firenze e altrove. La scuola continuava fino alle 19; ciò significava un'attività molto varia ma sempre utile per l'intera giornata. Questo era il regime di ogni giorno dell'anno, Pasqua e Natale compresi. Barbiana era una famiglia, non un'istituzione. Per me questo fu un'altra rivelazione.

don Lorenzo maestro

Don Lorenzo era un maestro eccelso. Due esempi del suo genio pedagogico sono ben fissi nella mia memoria. Al tempo delle mie visite lui già era molto malato di leucemia: ne sarebbe morto di lì a un anno. Quasi sempre impartiva le sue lezioni dal letto. Ogni giorno, dopo pranzo, tutti i ragazzi volevano riunirsi attorno a lui. Marcello, il più giovane, voleva sempre sedersi sul suo letto. Queste riunioni del primo pomeriggio erano dedicate ai giornali quotidiani. Don Lorenzo voleva discutere il senso politico, economico e religioso delle varie questioni delle notizie del giorno. Le riunioni erano estremamente animate; la discussione si svolgeva in un italiano rapido, con un gergo particolare, così che io potevo seguire ben poco di quanto si diceva. Provocai grande ilarità commentando che i ragazzi parlavano come mitragliatrici.

I preparativi per la Messa della domenica mattina furono l'altro notevole esempio di educazione a Barbiana. Si preparava il Vangelo del giorno. Tutti i giovani avevano una copia dei Vangeli sinottici (Matteo, Marco, Luca). Don Lorenzo tendeva a una fede radicata e ragionata. Il significato del testo veniva discusso per almeno un'ora e ne veniva estratto il senso per la vita d'ognuno. Quando fu tempo per la Messa io, sacerdote novello, la celebrai con l'assistenza di don Lorenzo; fu questa la sua volontà. Una gran folla di giovani voleva aiutarmi nella vestizione ed accompagnarmi in chiesa. Non avrebbe potuto esserci una Messa con più partecipazione.

Alcuni dei ragazzi più grandi erano stati all'estero. Francuccio aveva passato del tempo in Inghilterra, alloggiato presso una famiglia protestante vicino a Southend, in Essex. Quando per lui fu tempo di tornare in Italia la famiglia offrì un festino di commiato, durante il quale furono cantati degli inni particolarmente cari alla Chiesa protestante d'Inghilterra. Francuccio ne aveva una registrazione e me la fece ascoltare in presenza di don Lorenzo e di una folla di ragazzi. Tra gli inni cantati vi era "Jesu, lover of my soul". Io osservai quant'era bello quell'inno protestante. Don Lorenzo incalzante disse " Perché protestante?". Gli spiegai che l'inno conteneva il credo classico della Riforma Protestante riguardo all'assoluta indegnità dell'uomo e alla salvezza tramite la sola Fede. Questo ci portò ad un'affascinante conversazione sul contrasto tra il credo protestante e quello cattolico per quanto riguarda il sacrificio del Cristo, le vie della salvezza dell'uomo e l'opera dello Spirito Santo. Il livello della discussione avrebbe fatto onore a qualsiasi gruppo di seminaristi.

"Jesu, lover of my soul" era divenuto allora un'esperienza religiosa per i ragazzi. Dovetti frugare nella mia memoria per trovare le parole dell'inno e scriverle affinché se ne potessero fare delle copie. La domenica mattina della mia visita lo cantammo a Messa. Ero commosso nel sentire l'inno, tanto prezioso nella comunità cristiana inglese, levarsi dalla chiesetta di Barbiana e diffondersi sui colli degli Appennini.

conversazioni

A quel tempo don Lorenzo era in difficili rapporti con l'Arcivescovo di Firenze. Dopo tutto egli era stato esiliato a Barbiana: una piccolissima parrocchia rurale ormai quasi abbandonata. L'Arcivescovo mostrava di apprezzare ben poco 1'importanza della scuola. Don Lorenzo sarebbe stato felicissimo se avesse ricevuto qualche riconoscimento dall'Arcivescovo. Tutto ciò veniva discusso con i ragazzi.

La sera, dopo che i ragazzi se n'erano andati, don Lorenzo e io solevamo parlare su ogni cosa assieme davanti a un bicchierino di brandy. Presso i conservatori egli aveva fama di "prete rosso". Compresi che lui aveva effettivamente neutralizzato il comunismo creando, a Barbiana, una sorta di comunità cristiana proletaria, la quale, in quanto modo di vivere, era più semplice, più autenticamente umana e più misericordiosa di quanto il partito comunista avrebbe potuto offrire ai giovani.

Parlammo delle conseguenze dei suoi libri "Esperienze Pastorali" e "Lettera aperta ai cappellani militari di Toscana/Firenze" per i quali era stato accusato di sedizione. Mi spiegò che la lettera era stata composta a scuola e che era stata spedita a tutti i quotidiani di Firenze, ma che soltanto il giornale dei comunisti l'aveva stampata. Appresi anche che don Lorenzo ammirava molto Papa Paolo VI, il quale gli mandava denaro per la scuola e continuava a provvedere ai costosi farmaci per la leucemia. Eda era devota a don Lorenzo, così come erano tutti i ragazzi. Lo chiamavano "Priore". Due dei più grandi, Michele e Francuccio, che in realtà erano giovanotti, erano realmente suoi figli adottivi. Michele era versato in cose tecniche e Francuccio si interessava molto del mondo islamico, stava imparando l'arabo nella prospettiva di andare nell'Africa araba.

i miei allievi

A Barbiana il mio compito era quello di migliorare l'inglese di un trio di giovani che includeva Edoardo e Carla (la quale in seguito sposò Michele). Don Lorenzo li aveva già discretamente avviati usando come libro di testo "La fattoria degli animali" di George Orwell. Noi quattro sedevamo sotto un ulivo e parlavamo di tutto. A loro interessava molto la vita della gioventù proletaria in Gran Bretagna e mi dissero anche molte cose sul modo di vedere dei giovani in Italia. Migliorai il mio italiano e altrettanto credo avvenisse del loro inglese. I miei tre allievi erano rappresentativi dei giovani di Barbiana: avevano una straordinaria ampiezza d'interessi riguardo alla vita e serietà d'intenti. Per loro l'istruzione era una via verso l'intero significato della vita: la religione, la morale, la politica e la cultura erano tutte componenti d'una visione unitaria. Un giorno Eda stava mischiando una gran zuppiera di pasta per quelli che mangiavano a casa. Spinse la zuppiera in mezzo a noi e disse qualcosa in italiano. Don Lorenzo batté le mani e disse, "Solo tre persone avrebbero potuto dire quello che Eda ha detto - Eda, il docente di letteratura italiana all'Università di Firenze e Dante!". Aveva usato un'espressione gentilissima che ricordo in inglese come "Part this among you", qualcosa come "Dividete questo cibo". Ma purtroppo non fui mai capace di afferrare proprio ciò che Eda aveva detto in italiano.

Edoardo viene con me in Inghilterra

Don Lorenzo era stato molto colpito dal modello di sindacalismo democratico inglese, e volle che qualcuno dei ragazzi divenisse dirigente sindacale formandosi sull'esempio britannico. Edoardo, uno dei miei allievi, aveva quelle possibilità di successo, e divenne infatti un importante sindacalista a Milano tra i suoi venti e trent'anni.

Quell'estate, quando tornai in Inghilterra, dovevo portare Edoardo con me, trovargli alloggio e lavoro, essere suo amico in Inghilterra, e tutto ciò accadde. In treno verso l'Inghilterra, Edoardo incontrò alcuni studenti spagnoli e li coinvolse in una conversazione sul generale Franco in un miscuglio di italiano, spagnolo ed inglese. Dapprima gli studenti si divertivano con quel giovane italiano così anti-fascista; lo chiamavano giovane comunista. Io intervenni solo per chiarire la cosa. Alla fine gli studenti si dispersero incapaci di sopportare la forza del sentimento di Edoardo e della sua dialettica.

A Londra Edoardo abitava con una famiglia che io conoscevo molto bene ed andava a lavorare in un magazzino di vino. Assieme al figlio di quella famiglia Edoardo frequentava un gruppo di "Giovani Lavoratori Cristiani" che io avevo promosso nella parrocchia che mi era stata assegnata nel sud di Londra. Temo che per lui noi fossimo solo un riflesso sbiadito di Barbiana. Dopo circa sei mesi Edoardo tornò in Italia proprio mentre don Lorenzo moriva. Vegliò con gli altri ragazzi di Barbiana al capezzale del sacerdote. Edoardo era stato anche tra quelli che prepararono la "Lettera a una professoressa" che divenne poi l'epitaffio di don Lorenzo e della scuola di Barbiana.

 

LA QUESTIONE DEGLI INEDITI DI DON MILANI

Rocca, Assisi (Perugia), 1° ottobre 1974, pagg. 50-51

di Maurizio Di Giacomo

Anche per gli scritti di don Milani è invalso il discutibile metodo delle pubblicazioni sparse e non integrali. Ora è la volta di una voluminosa biografia di Neera Fallaci, un libro certamente stimolante sul piano delle testimonianze. Al fine di sottrarre gli inediti alla frammentarietà e alla dispersione una iniziativa è stata avviata presso il Centro di documentazione di Bologna

26 giugno 1967. In casa della madre moriva a soli 44 anni, stroncato dal cancro, don Lorenzo Milani il "priore di Barbiana". Durante i 7 anni trascorsi dalla sua morte molti articoli sono stati scritti su di lui, riviste gli hanno dedicato numeri monografici, suoi spietati critici lo hanno lodato da "morto" e sono apparsi non pochi "esegeti" più o meno ufficiali del suo pensiero e della sua testimonianza.

Eppure durante tutti questi anni la personalità umana e le radici storiche e culturali del solitario prete del Mugello sono rimaste in gran parte inesplorate.

Don Milani tornò "a fare notizia" con la pubblicazione di una scelta di sue lettere inedite "Lettere di don Lorenzo Milani, priore di Barbiana" (Ed. Mondadori pag. 325, Lire 1.200) apparse nel maggio 1970. A quelle lettere ne seguirono altre pubblicate in modo sparso e occasionale. Nel febbraio 1973 sua madre Alice Milani Comparetti pubblicò sempre con Mondadori 157 "Lettere alla mamma 1943-1967" (pag. 219, L. 1.500) che gettarono nuova (ma non molta) luce sull'uomo Milani.

Adesso il prete fiorentino è il soggetto di un film di Piero Tosini in cui la sua parte sarà interpretata da Enrico Maria Salerno e il protagonista di una voluminosa biografia "Dalla parte dell'ultimo. Vita del prete Lorenzo Milani" (Milano Libri Edizione pag. 435 Lire 4.500) di Neera Fallaci.

Il Film in base a un intervista concessa da Enrico Maria Salerno al rusconiano "Gente" lascia intravedere una chiara "riduzione" dell'azione e dei problemi agitati da don Lorenzo Milani. Egli sul piano politico è presentato come il prete di tutti: che aiutava il democristiano e il comunista, mentre in realtà i suoi rapporti con gli esponenti di questi partiti furono sempre incalzanti e critici. Il contenuto violento" della sua scuola e il suo messaggio sono visti attraverso l'ottica del civilissimo maestro": di fatto Lettera a una professoressa" così rischia di perdere tutta la sua carica". Il significato teologico della lettera "a Pipetta" viene così tradotto da Enrico Maria Salerno Al povero comunista diceva: Bada che tu sei dalla mia parte perché sei povero come sono povero io. Il giorno che, tu andassi al potere, ricordati che io sono dall'altra parte". Inoltre i suoi non facili rapporti con la gerarchia ecclesiastica che egli si preoccupava di "bene informare" credendo di poterla convincere (ma fino a che punto?) della sua posizione "ortodossa", nelle dichiarazioni di Salerno già impegnato nel lavoro col copione, risultano estremamente appiattiti.

Il "lungo viaggio" della Fallaci

Il fatto nuovo e destinato -forse- a riaprire il "caso don Milani" è la biografia della Fallaci. E' un libro scritto con passione, frutto di mesi di ricerche e di difficili colloqui, insufficiente nell'inquadramento storico e politico complessivo, ma stimolante sul piano delle testimonianze e dei documenti (molte volte inediti) in esso prodotti.

La Fallaci compie un "lungo viaggio" che parte dalla famiglia Milani borghese e benestante, a tratti aristocratica e dotta con solide radici culturali. Sarà sufficiente leggere con chi trascorreva le vacanze e in quali ambienti crebbe l'adolescente Milani per capire perché egli poi giudicasse la sua giovinezza come i "20 anni passati nelle tenebre e nell'errore". La Fallaci con molta delicatezza, laddove le testimonianze e gli scritti glielo permettono, coglie l'evoluzione umana e emotiva di don Milani che và ben oltre la sua "conversione" del 1943 (data dell'ingresso in seminario) e che è in buona parte da studiare e da approfondire.

La Fallaci rivela, con molta discrezione, la complessa umanità di don Milani: il distacco da Carla l'"ex fidanzata" della gioventù, il pianto e il momento di sconforto all'arrivo a Barbiana solitaria e desolata, il bisogno di sentirsi al "centro della Chiesa" e non prete "escluso" (come lo fu di fatto dai suoi superiori) e i suoi rapporti non facili col mondo femminile segnati dall'"immensa frode del seminario". Don Milani comunque rimase sul piano umano estremamente mobile e disposto all'evoluzione; basterà leggere la sua lettera alla sorella Elena alla vigilia del matrimonio per documentarlo (pag. 155-56 di "Lettere alla mamma").

Il contributo più importante del libro della Fallaci, però, è quello relativo alla questione degli "inediti" di don Milani.

Subito dopo la sua morte sorse il problema di raccogliere e sistemare la mole di documenti (lettere soprattutto) del "priore". A un certo momento i "ragazzi di Barbiana" pensarono di realizzare essi stessi una biografia del sacerdote, ma il progetto poi decadde. Da più parti si accennò anche alle lettere di don Milani in possesso di mons. Raffaele Bensi suo "padre spirituale". Il sacerdote si è finora opposto a una sua pubblicazione giudicandole quasi materia di confessione. Una volta tuttavia dichiarò di aver provveduto a dividerle in "quelle da non far leggere mai a nessuno e quelle che potrebbero un domani diventare pubbliche".

Puntini tra parentesi quadre

Nel maggio 1970, presso Mondadori a cura di Michele Gesualdi uno dei "ragazzi di Barbiana" più "anziani" vennero pubblicate 127 lettere "scelte" tra le oltre 1.000 in suo possesso. Il successo del libro fu notevole e grazie a esso presso il curatore giunsero altri documenti (in prevalenza di sacerdoti) all'origine sconosciuti. Eppure a ben leggere la prima raccolta non mancavano elementi di perplessità. La decisione di pubblicare queste lettere non fu delle più pacifiche all'interno dei "ragazzi di Barbiana". Poi c'era la questione dei brani omessi. Nell'avvertenza delle "lettere inedite" curate da Gesualdi si legge: "La riproduzione è quasi sempre integrale; le parole o i brani omessi sono indicati con puntini chiusi tra parentesi quadre. Per vari motivi, alcuni nomi di persona sono stati abbreviati o cambiati". Nella prima raccolta mondadoriana compaiono 60 "parentesi" di cui 12 in lettere intestate a sacerdoti o ecclesiastici. I tagli in lettere a ecclesiastici sono 5.

Nella edizione delle "lettere alla mamma", 157 sulle 600 in possesso della signora Milani, compaiono 51 "parentesi" e questa riga di avvertenza vera e propria "Ho annotato soltanto i nomi delle persone che hanno avuto un rapporto speciale con Lorenzo. Dov'era il caso ho messo le sole iniziali".

Dopo la pubblicazione dei due epistolari il discutibile metodo di pubblicare inediti a "spizzico" è continuato. Ognuno che scrivesse ha "esibito" interessanti, ma slegati documenti inediti quasi per giustificare quello che aveva scritto. A questo proposito si possono ricordare: "testimonianza su Lorenzo Milani" di Giampaolo Meucci e Alfredo Nesi (Quaderni di Corea n. 4 Libreria Editrice Fiorentina del 1971), i due articoli "Appunti per una biografia" di Giovanni Spinoso apparsi in "Politica" del 16-23 luglio 1972 che presenta, tra gli altri inediti, una lettera del 1965 dove don Milani fa alcune interessanti considerazioni sul suo rapporto col vescovo; Famiglia Cristiana del 22 aprile 1973 con un inedito sul seminano largamente "mutilato".

Da ultimo va segnalato un confuso articolo di Giovanni Spinoso apparso sull'Avvenire del 20 agosto 1972 con un inedito di Milani seminarista. Inoltre si resta in attesa che la Curia fiorentina, come annunciato dall'Osservatore Toscano dall'autunno 1972 pubblichi suoi documenti inediti sul prete fiorentino.

Il recente saggio di Giampiero Bruni "Lorenzo Milani: profeta cristiano" (pag. 211 lire 2.500 Libreria Editrice Fiorentina) riporta alcuni appunti inediti di don Renzo Rossi (seminarista insieme a don Milani) già apparsi sull'"Europeo" e ricorre ancora al sistema delle informazioni biografiche da fonte "amica" ma anonima.

Per ora è la Fallaci che documenta le cose più interessanti. Essa a pag. 205 del suo libro pubblica il testo integrale di una lettera che il 5 marzo 1964 don Milani scrisse all’arcivescovo di Firenze mons. Florit. Questa stessa lettera compare a pagina 207-209 della prima raccolta di Mondadori. Tuttavia c'è una differenza di non poco conto. Infatti in una frase chiave di questa lettera una parte (qui in corsivo), nell'edizione di Mondadori, è tra "parentesi": cioè non compare.

"Dopo 7 anni di questa illusione idilliaca, d'un tratto seppi la tragica realtà: la Curia Fiorentina era un deserto! Allora scelsi quella che in quel momento mi parve la via della santità: per 9 anni ho badato solo a salvarmi l'anima, a accettare in silenzio le crudeltà puerili, sadiche, irreligiose, incoscienti con cui mons. Tirapani, lei e mons. Bianchi (e quindi automaticamente tutti i preti che ruotano nel vostro ambiente) calpestavate in me un uomo, un neofita, un cristiano, un parroco, in cui in 17 anni di sacerdozio non avevate saputo trovare il più piccolo appiglio per un richiamo, un consiglio, un rimprovero". Nella stessa lettera risulta omessa la frase "Oppure me li mandi tutti quassù in gita scolastica a vivere un'intera giornata con i miei ragazzi". Don Milani infatti chiedeva a Florit una prova concreta, una giornata con i seminaristi di Firenze, per dissipare nei montanari di Barbiana il dubbio ch'egli fosse un "pastore valdese".

A pag. 412 del suo libro la Fallaci censura i nomi di alcuni contadini coinvolti in un episodio accaduto a Barbiana e annota garbatamente: "Evitiamo di riportare per esteso i nomi dei protagonisti degli episodi per un riguardo che altri hanno usato, con censure molteplici, verso borghesi e preti, d'ogni ordine e grado".

Infatti nella pagina successiva la Fallaci rivela un altro episodio. Nella raccolta di Mondadori (pag. 224) esiste una lettera del 4 aprile 1965 intestata "A un autorevole sacerdote fiorentino". La lettera spiega la condizione di don Milani dopo due servizi de "Lo Specchio" e de "La Nazione" (non citati nella raccolta di Mondadori) che lo amareggiarono assai perché lo descrissero come il "prete rosso" all'indomani della sua risposta ai cappellani militari nell'inverno del 1965.

La lettera è in realtà indirizzata a mons. Raffaele Bensi (il che conferma l'importanza di questo epistolario) e ha anche essa una "parentesi". Scrive, a questo proposito, la Fallaci: "Poi c'è il taglio di un discorso che (per quanto ne sappiamo) poteva essere interessante, considerato che segue la dichiarazione di don Milani: Ho diritto per legge di rispondere al giornale per esteso". A simili parole è stata messa una nota che dice: "In questo periodo di attacchi e di polemiche il Priore soffrì molto, soprattutto perché mai né il vescovo né la stampa cattolica dissero una sola parola in sua difesa".

La parte omessa forse contiene un espressione di sconforto del sacerdote o un suo "pesante" apprezzamento sul vescovo che lo aveva "invitato" a sottoporgli dall'8 marzo 1965 ogni suo scritto pubblico pena la sospensione a divinis.

D'altra parte esiste una lettera "aperta" che Giorgio Pecorini "amico" di don Milani inviò a Michele Gesualdi e ai "maggiori interessati" alle "scuole di Calenzano e di Barbiana" dopo aver letto un manoscritto della scelta di lettere inedite da pubblicare che lo aveva lasciato particolarmente perplesso.

In questa lettera ciclostilata dove Pecorini auspica una gestione "collettiva" delle lettere inedite di don Milani aperta a "tutti" anche ai "nemici" in possesso di suoi scritti si legge tra l'altro: "Se ci sembra giusto invece aprire il tesoro, la parte nostra con quella altrui e spartirlo con tutti gli altri facciamolo, ma senza riserva, senza furbizie, senza presunzioni". Più avanti Pecorini osserva: "Troppo comodo cavarsela togliendo i documenti contraddittori. Cerchiamo piuttosto di offrire, al lettore, a colpi di nota, tutti gli elementi necessari per capire e per spiegare. E se non li trovassimo non importa: avrà sempre più ragioni lui a contraddirsi che noi a censurarlo".

Una gestione collettiva degli inediti

Domandarsi perché sono avvenute queste vicende intorno ai "resti inediti" di don Milani è, tutto sommato, inutile. Occorre guardare in avanti e cogliere le nuove opportunità che si offrono per una ricostruzione storica completa di questo "testimone di verità".

Recentemente la madre di don Milani e i suoi fratelli hanno attivato un "fondo don Milani" presso il centro di documentazione dell'Associazione per le Scienze Religiose dell'università di Bologna, diretto dal prof. Alberigo, dando gli inediti in loro possesso.

Questa iniziativa fu appoggiata su "La Stampa" del 23 marzo 1973 da un cattolico "insospettabile" come Mario Gozzini che allora propose "un'iniziativa pubblica per la costituzione di un archivio delle carte inedite che le sottragga agli umori dei singoli e dei gruppi che le detengono".

L'avvio sembra promettente. Restano interrogativi non secondari che vale la pena citare: la signora Milani e i fratelli in che misura hanno depositato i loro inediti? L'epistolario indirizzato a Carla dove don Milani spiega alcuni momenti della sua conversione (e in possesso di un familiare del sacerdote) -come rivelato dalla Fallaci- sarà accessibile?

Le lettere di mons. Bensi sfuggiranno -e in che misura- al "segreto confessionale"? Che farà a questo punto Michele Gesualdi? Le autorità ecclesiastiche daranno i documenti in loro possesso? Saprà il gruppo di "intellettuali" che lavorerà all'opera completa di don Milani dimostrarsi meno incline di molti suoi "amici" e di suoi "ragazzi" a cedere ai pur comprensibili ricordi e alle autocensure e in grado di resistere a eventuali pressioni anche di origine ecclesiastica? Solo i prossimi sviluppi di questa iniziativa daranno -forse- una risposta convincente.

Certo viene da chiedersi: i fatti sopra documentati oggettivamente e in ultima analisi a chi giovano?

La risposta la dà un compagno di seminario di don Milani, don Bruno Borghi: vivente e prete operaio. Egli in "Scuola documenti n. 1" del Centro di Documentazione di Pistoia così si esprimeva su alcuni scritti e testimonianze che aveva letto circa l'opera e la figura di don Milani. Le sue considerazioni, espresse, all'inizio del 1973, acquistano oggi un'amara attualità e trovano una verifica nei fatti sopra descritti:

"Ripeto di nuovo che tutto questo serve a qualcuno e a qualcosa; a fare cioè di Lorenzo un uomo che non è più scomodo, a togliergli quella violenza per cui dovrebbe essere irrecuperabile per una chiesa istituzionale, anche se aggiornata e che lo ha combattuto. Ma è irrecuperabile anche per una scuola di sinistra appena appena riformata in quegli aspetti che lo stesso sistema capitalistico ormai accetta e vuole".

 

GLI INEDITI DI DON MILANI

di Maurizio Di Giacomo

IDOC Internazionale, Roma, n° 2, febbraio 1976, pagg. 61-64

Il recente film "Un prete scomodo" su don Lorenzo Milani, realizzato quasi esclusivamente su testi e lettere del priore di Barbiana (23 maggio 1923-26 giugno 1967), ripropone la questione e la vicenda dei suoi scritti "inediti".

Già su Vita Sociale del luglio-ottobre 1967 padre Reginaldo Santilli rese pubbliche due lettere inviategli da don Milani nel 1958 quando già si temevano provvedimenti contro il suo libro "Esperienze Pastorali". (Esso fu ritirato dal commercio il 28 dicembre 1958 per intervento del S. Uffizio).

Nel dicembre 1967, poi, il n. 100 di Testimonianze dedicato a "Lorenzo Milani: un prete" (oggi esaurito), pubblicava quattro sue lettere indirizzate a Giampaolo Meucci. I documenti risalenti dall’ottobre 1949 all’aprile 1954 aprivano interessanti squarci sulla scuola popolare di S. Donato di Calenzano (vicino Firenze).

Nel 1968, per opera di Giorgio Pecorini stretto amico di don Milani, L’Espresso pubblicava due inediti del prete barbianese, in particolare nell'aprile 1968 veniva reso noto l'articolo "Un muro di foglio e di incenso" che don Milani aveva scritto nell'agosto 1959 per "Politica" diretta dal democristiano Nicola Pistelli e non pubblicato per intervento di don Raffaele Bensi, suo padre "spirituale".

Tra il 1969 e il 1970 altre lettere inedite comparvero su Testimonianze, su Il Focolare la pubblicazione dell'Opera Madonnina del Grappa. Rinascita del 24 gennaio 1969, in particolare, pubblicò una lettera di don Milani a Marco Sassano, del 30-3-1965, dove si annunciava che Paolo VI, scavalcando lo stesso Florit, aveva inviato un assegno di centomila lire alla "scuola di Barbiana" mentre don Milani, sotto accusa per aver attaccato un gruppo di cappellani militari toscani, era lasciato insultare pubblicamente. Infine nel 1970 presso l'editore Mondadori comparvero le "Lettere di don Milani priore di Barbiana", curate da Michele Gesualdi uno dei "ragazzi" della "scuola", una scelta di 27 lettere fra le oltre 1.000 in suo possesso e che andavano dal 1950 al 1967. L'epistolario, molto prezioso, era accompagnato da questa avvertenza: "La riproduzione è quasi sempre integrale: le parole e i brani omessi sono indicati con puntini chiusi in parentesi quadre. Per vari motivi alcuni nomi di persone sono stati abbreviati e cambiati".

In questa prima raccolta di lettere esistono 60 parentesi, 40 di esse compaiono in lettere destinate a sacerdoti o ecclesiastici. Le parentesi nelle lettere inviate a ecclesiastici si trovano a pag. 97, 99, 184, 208, 285 della già citata edizione di Mondadori del 1972. (Essa infatti è stata stampata nel 1976 nella 1a edizione della serie Oscar Mondadori). Il successo del libro, nonostante questi limiti, fu notevole: 9 edizioni in poco più di tre anni, e, come ha scritto Giovanni Spinoso ne L’Avvenire del 20 agosto 1972, presso Michele Gesualdi sono arrivati "ulteriori scritti di Lorenzo i cui destinatari erano rimasti sconosciuti".

La prima raccolta di "lettere inedite" di don Milani, pur segnando un fatto nuovo -non si trattava più di frammenti isolati- determinò una vera e propria caccia all'inedito. Tra il 1970 e il 1972 varie furono le pubblicazioni che resero nuovi [si tratta verosimilmente di un refùso: dovrebbe esservi noti. NdMM], in modo disorganico, nuovi inediti.

Nell'aprile 1971, nella serie Quaderni di Corea (terza serie) della Libreria Editrice Fiorentina appariva "Testimonianza su Lorenzo Milani" a cura di G. Meucci e di don Alfredo Nesi. L'opuscolo pubblicava in appendice tre lettere di don Milani e don Renzo Rossi tra il febbraio 1953 e il gennaio 1956. Particolarmente interessante è quella del 1° dicembre 1954 scritta pochi giorni prima di salire nell'eremo di Barbiana.

Successivamente Giovanni Spinoso in Politica n. 28 e 29 pubblicava "Appunti per una bibliografia di don Milani", tra cui un inedito del 12 marzo 1965 che chiarisce lo stato d'animo di don Milani subito dopo che l'arcivescovo Florit di Firenze gli aveva intimato di sottoporgli preventivamente ogni suo scritto pubblico pena la sua "sospensione a divinis". Sempre lo stesso Spinoso pubblicò ne L'Avvenire del 20 agosto 1972 un inedito di don Milani seminarista, collocabile tra il 1946 e il 1947. Il quotidiano 'cattolico', ermeticamente silenzioso quando don Milani, nel 1965, era esposto agli attacchi della stampa moderata e fascista, ora lasciava trasparire una chiara direzione di "recupero indolore".

Gli scritti di Spinoso provocarono una replica di don Nesi in Politica n. 44/1972. Egli che, già nel 1971, affermò di possedere gli schemi di scuola seminaristica di Lorenzo Milani sulle lettere di San Paolo, disse che nelle 600 lettere alla madre non esistevano -come sostenuto da Spinoso- documenti che "mettono sotto accusa l'educazione e il patrimonio fondiario della famiglia". Spinoso così replicò: "Prendo atto poi della smentita. L'informazione è di fonte 'barbabiese' e mi è stata data con la seguente aggiunta 'ho copia di quelle lettere'". Nel febbraio 1973, sempre presso Mondadori, curate da Alice Milani Comparetti, madre di don Milani, apparivano "Lettere alla mamma (1943-1967)", una scelta di 157 lettere tra le 600 in suo possesso allora. Il libro presenta 43 "parentesi" e per ora non ha superato la terza edizione. Recensendo queste nuove lettere, Mario Gozzini un cattolico non certo radicale, invocava "un'iniziativa pubblica per la costituzione di un archivio delle carte inedite che le sottragga agli umori dei singoli e dei gruppi che le detengono". Infatti nell'aprile 1973 il settimanale Famiglia Cristiana rendeva noto un inedito di don Milani del 1950 dove egli analizzava l'"immensa frode del seminario" mutilato però del "nome del destinatario, dei riferimenti personali e inoltre di alcuni passaggi non essenziali".

Nel 1974 infine venivano stampate altre opere con annessi inediti. Giampiero Bruni nel suo "Lorenzo Milani: un profeta" Libreria Editrice Fiorentina, pubblicava cinque lettere inedite (di cui tre già apparse nel sopracitato Quaderno di Corea). Da parte sua "Scuola documenti" n. 7, 1975, edita dal Centro di documentazione di Pistoia pubblicava il testo di due stimolanti conferenze sulla scuola tenute da don Milani. Cristofanelli nel suo "Pedagogia sociale di don Milani" Ed. Dehoniane, 1975, allegava alcune lettere inedite tra don Milani e Nando Fabro direttore del mensile genovese Il Gallo. Il libro, uscito nel 1974, e che ha permesso di fare un passo in avanti sulla "questione degli inediti" è tuttavia "Dalla parte dell'ultimo. Vita del prete Lorenzo Milani" di Neera Fallaci, Milano Libri Edizioni (pag. 550, L. 4.500). Questo libro voluminoso, ricco di foto e di inediti, realizzato col discreto aiuto di Mario Cartoni, un giornalista già amico di don Milani, e destinato a dire prima o poi la sua sulla questione degli inediti di don Milani, oltre ad essere un'essenziale biografia sul "priore di Barbiana", permette di fare illuminanti confronti.

La Fallaci a pag. 205/207 del suo libro riproduce integralmente una lettera di don Milani spedita all'arcivescovo Florit (pag. 207/209 della raccolta "Lettere di don Milani priore di Barbiana", ed. Mondadori 1972) il 5 marzo 1964, quasi 10 anni dopo il suo esilio a Barbiana. In essa don Milani diceva tra l'altro: "Dopo 7 anni di questa illusione idilliaca, d'un tratto seppi la tragica realtà: la Curia fiorentina era un deserto! Allora scelsi quella che in quel momento mi parve la via della santità: per 9 anni ho badato solo a salvarmi l'anima, ad accettare in silenzio, le crudeltà puerili, sadiche irreligiose, incoscienti con cui mons. Tirapani, lei e mons. Bianchi (e quindi automaticamente tutti i preti che ruotano nel vostro ambiente) calpestavate in me un uomo, un neofita, un cristiano, un parroco, in cui in 17 anni di sacerdozio non avete saputo trovare il più piccolo appiglio per un richiamo, un consiglio, un rimprovero". (La parte in corsivo è stata soppressa nell'edizione di Mondadori). Così come nella stessa lettera nella medesima edizione manca la frase: "Oppure me li mandi -i seminaristi n.d.r. -tutti quanti quassù in gita scolastica a vivere un'intera giornata con i miei ragazzi". Don Milani faceva questa richiesta per non rafforzare nei montanari di Barbiana il sospetto che egli fosse un pastore valdese. A pag. 412 del suo libro la Fallaci riferendo un episodio in cui sono stati coinvolti alcuni contadini barbianesi, annota: "Evitiamo di riportare per esteso i nomi dei protagonisti degli episodi per un riguardo che altri hanno usato, con censure molteplici, verso borghesi e preti, d'ogni ordine e grado".

La stessa Fallaci comunque non ha potuto consultare altri carteggi forse decisivi. Essa ha segnalato l'esistenza di un blocco di lettere del giovane Lorenzo Milani con Carla "l'ex quasi fidanzata" e oggi "in possesso di un familiare di don Milani", dove sembra che egli descriva le tappe della sua "conversione". Egualmente esclusa è rimasta la Fallaci dalle lettere di don Milani a mons. Raffaele Bensi suo padre spirituale e da questi giudicate pressapoco materia di confessione. Lo stesso Bensi, comunque, nel corso di una trasmissione "III B" diretta da Enzo Biagi, dichiarò di aver diviso le lettere in "quelle da non far mai leggere a nessuno e quelle che un domani potrebbero diventare pubbliche". Nel suo libro la Fallaci è riuscita, tuttavia, a far intuire l'importanza del carteggio in possesso di mons. Bensi. La Fallaci, infatti, ha rivelato che la lettera del 4 aprile 1965 (pag. 224 di Lettere di don Milani priore di Barbiana) e intestata a "Un autorevole sacerdote fiorentino" è in realtà destinata a don Bensi. Nella lettera don Milani spiegava la sua condizione dopo due servizi de La Nazione e de Lo Specchio che lo avevano particolarmente amareggiato durante le polemiche nate per la sua risposta ai cappellani militari (V. "L'obbedienza non è più una virtù" Libreria Editrice Fiorentina, con i documenti del relativo processo a don Milani). Su questa vicenda la Fallaci a pag. 413 del suo libro osserva: "Poi c'è un taglio di un discorso che (per quanto ne sappiamo) poteva essere interessante, considerato che segue la dichiarazione di don Milani: Ho il diritto per legge di rispondere al giornale per esteso". A simili parole invece è stata messa una nota (pag. 226 dell'edizione Mondadori) che dice: "In questo periodo di attacchi e polemiche il Priore soffrì molto, soprattutto perché mai né il vescovo né la stampa cattolica dissero una sola parola in sua difesa". Cosa cela questo "taglio": forse una battuta "colorita" di don Milani su qualche arcivescovo o qualche suo attimo di sconforto?

D'altra parte, che la prima raccolta di inediti di don Milani sia maturata in un ambiente complesso e ricco di "mediazioni" è dimostrato da una lunga lettera ciclostilata che Giorgio Pecorini, molto attivo in questa vicenda, inviò l'8 ottobre 1968 a Michele Gesualdi e agli altri "ragazzi" di Barbiana, di cui qui si riproduce un passaggio essenziale. "Se ci sembra giusto invece aprire il tesoro, la parte nostra con quelle altrui e spartirlo con tutti gli altri facciamolo senza furbizie, senza presunzioni. Tenere in serbo un solo documento, tagliare una sola frase, togliere un solo aggettivo, nascondere un solo nome non è fidarsi di don Lorenzo, è credere di essere noi più intelligenti, più prudenti, più saggi di lui. Allora si lascia ogni cosa com'è, togliendo nulla, aggiungendo solo quello che occorre a far capire tutto a tutti? Sì, io rispondo. Questa è l'unica norma, l'unico principio. In pratica poi si esamina (ossia si discute) caso per caso. E caso per caso si decide collettivamente. Senza riconoscere alcun diritto di veto. Impegnandosi ognuno a partecipare alla discussione e a trarne le conseguenze necessarie. Il che non vuol dire pubblicare tutto contemporaneamente e integralmente. Sarà anzi opportuno e qualche volta necessario stabilire delle gradualità, rinviare molte cose, spostarne altre. Ci fossero cento lettere in cui la stessa cosa viene ripetuta. cento volte con pochissime varianti o con nessuna, bisogna lasciarle, tutte e cento: il solo fatto che don Lorenzo abbia sentito il bisogno di ripetere cento volte la stessa cosa è di per sé un documento e se ci sono contraddizioni vuol dire che don Milani ha cambiato parere su qualcuno e qualcosa. Troppo comodo cavarsela togliendo i documenti contraddittori. Cerchiamo piuttosto di offrire ai lettori, a colpi di nota, tutti gli elementi per spiegare e per capire. E se non li trovassimo non importa: avrà sempre più ragione lui a contraddirsi che noi a censurarlo".

Nella prefazione a "Dalla parte dell'ultimo", attribuibile per lo stile a Oreste del Buono, allora responsabile della Milano Libri e già amico di liceo di Lorenzo Milani. si poteva leggere: "In contrasto con le cocenti espressioni di rammarico formulate fin qui dagli addetti ai lavori più qualificati e al di là degli encomiabili propositi (si è perfino parlato del progetto di istituire un centro di studio e di raccolta dove convogliare e tesaurizzare ogni frammentario scritto che direttamente o indirettamente riguardi don Milani), nessuno si è finora assunto il compito di dare a tutto questo una concreta attuazione: tanto da rendere legittimo il sospetto che il "prete amaro di Barbiana" -come qualcuno volle definirlo- scomodissimo finché fu vivo, continui a rappresentare anche per i più eminenti ed appassionati cultori ed esegeti un argomento estremamente disagevole, una materia urticante difficile da maneggiare.

Comunque nel giugno 1974 Alice Milani Comparetti e i due fratelli di don Milani Adriano e Elena, comunicavano di aver donato tutti gli inediti in loro possesso per attivare presso l’Associazione per lo sviluppo delle scienze religiose dell’università di Bologna, diretta dal prof. Alberigo, un "fondo don Lorenzo Milani". Sembra che ultimamente questo fondo abbia ricevuto le carte di Franco Gesualdi prima ch'egli partisse "volontario" per il Bangladesh. Fin'ora tuttavia non si sono avuti ulteriori sviluppi nella vicenda di questo "fondo" e si teme che oltre ai vincoli posti dai "donatori" pesino anche "remore ecclesiastiche" non facilmente esorcizzabili.

C'è infine da porsi un interrogativo: a chi giova, in ultima analisi, quanto sta avvenendo intorno ai "resti inediti" di don Milani? La risposta si può trovare in due "testimoni di verità", passati accanto a don Milani e da lui stimati, anche se approdati a sbocchi diversi.

In Scuola Documenti n. 1, nel 1973, sì osservava don Bruno Borghi, prete operaio: "Tutto questo serve a qualcuno e a qualcosa: a fare di Lorenzo un uomo che non è più scomodo, a togliergli quella violenza per cui dovrebbe essere irrecuperabile per una chiesa istituzionale, anche se aggiornata e che lo ha combattuto. Ma è irrecuperabile anche per una scuola di sinistra appena appena riformata in quegli aspetti che lo stesso sistema capitalistico ormai accetta".

C'è poi una riflessione di don Luigi Rosadoni (1928-1972), testimone delle comunità cristiane di base che il 24 marzo 1970 nel suo epistolario "Il mestiere di essere vivi" ed. Gribaudi (pag. 213) annotava, a riprova che negli ambienti del "dissenso cattolico" si era intuito come -di fatto- una presentazione di don Milani in chiave di "contestatore positivo" segnava l'inizio del suo recupero. "Noi sappiamo -osservava Rosadoni- per esperienza che l'istituzione combatte certi uomini, i cosid[d]etti ‘profeti’ (nel senso modesto di non istituzionalomani), ma poi se questi non combinano guai troppo grossi, li strumentalizzano per tenere legate certe zone progressiste del popolo e per poter continuare a dire: Io, chiesa, ero all'avanguardia. Così ha fatto con Rosmini, coi preti operai, con Mazzolari, con Milani. Bisogna essere 'profeti' veramente scomodi, non digeribili".

RICORDO DI DON MILANI

di Nazareno Fabbretti

L’Educatore Italiano, 1° novembre 1967, pag. 23

Anch'io sono fra quelli che non hanno conosciuto don Milani. L'ultima volta che mi scrisse -poche righe asciutte- fu tre anni fa, al tempo della "Lettera ai giudici", per raccomandarmi di diffonderla, specialmente fra i giovani. Agli ultimi di maggio scorso, prima che partissi per un viaggio in Oriente, mi scrissero i suoi ragazzi di Barbiana -un biglietto asciutto, sullo stile del maestro- per raccomandarmi di diffondere quello che era il loro primo lavoro d'équipe e insieme il "testamento" dell'uomo a cui dovevano tutto: "Lettera a una professoressa".

A fine giugno, mentre ero in un lebbrosario della Corea, mi raggiunse, per caso, la notizia della sua morte. Sebbene non avessi mai visto di persona quel prete che faceva paura a tanta gente e che ne irritava di più ancora, mi sembrò che la Chiesa fosse impoverita dalla scomparsa di questo fiero convertito che se n'andava senza aver accettato il minimo dei compromessi con nessuna autorità della terra.

Mi hanno poi raccontato la cronaca della sua agonia, e la sua statura è cresciuta dentro di me. Se la "Lettera ai giudici" -il più alto documento contro la guerra nato nella Chiesa del nostro tempo- è degno -anche per grandezza di stile- di figurare tra le pagine più decisive dei padri della Chiesa, l'uomo che l'ha scritta appare adesso, oltre tutte le polemiche, nella pace della morte, più grande di tutte le sue pagine, che sono state peraltro umili e poche. Mi hanno raccontato come è morto, e questo mi basta. Ha fatto luì stesso, non senza un pizzico di terribile umorismo, la cronaca anticipata della propria morte. Davanti al fratello medico e a un vescovo che era corso ad assisterlo, registrava a voce flebile ma ferma la corsa del duplice cancro che lo divorava e lo stava uccidendo. Ha vissuto la propria morte con la stessa forza con cui aveva accettato la proprie vita; una vita, negli ultimi anni, di "confinato", di "condannato", di escluso dal consorzio del benpensanti.

Le sue "Esperienze pastorali" erano state elogiate da un vescovo come Dalla Costa, e presentate da un altro vescovo. Ma, pur senza essere condannate, erano state indiziate e proscritte come un libro sovversivo, anche se non avevano fatto altro che rianticipare il discorso pastorale che presto il Concilio avrebbe ripreso e sviluppato nella stessa prospettiva. Accusato per apologia dell'obiezione di coscienza, era stato assolto: e quell'assoluzione, scoppiata in pieno Concilio con più scandalo di una condanna, segnò, per molti, il momento di una grande speranza circa la posizione della Chiesa di fronte alla guerra e alla pace.

Sempre davanti ai suoi ragazzi

Ma a don Milani non è mai importato d'essere condannato o assolto. Gl'importava solo di dire sempre e a tutti la verità, senza mezzi termini; per questo faceva paura agli avversari. Ma faceva paura soprattutto egli amici. Faceva paura anche e me, che non ho mai accettato gl'inviti di chi mi voleva portare a conoscerlo. Sapevo come riceveva la gente che riusciva ad arrampicassi sino a Barbiana. Sotto la pergola della misera canonica, ti fulminava subito con le domande che contano. E tutto e sempre davanti ai suoi ragazzi, coi quali viveva ventiquattr'ore su ventiquattro. Anzi, voleva che le domande che contano, a tutti indistintamente, le facessero proprio i ragazzi. Ogni testimonianza che poteva emergere dalle risposte -positiva o negativa che fosse- era per lui un arricchimento umano, una verifica che contribuiva a promuovere uomini quei ragazzi. Fu così che un giorno -quando si presentò un noto ex prete italiano per intervistarlo- don Milani disse al suoi ragazzi: "Domandategli perché si è spretato, per quale crisi ha preso quella decisione. E’ importante: fatevi dire perché ha scelto una nuova strada". L'ex prete non gliela perdonò che molto tardi, quando comprese quanta autenticità umana, quanto rispetto c'era in quella che sembrava invece una provocazione senza giustificazioni.

Era quasi impossibile parlargli a tu per tu. Tutto quello che si diceva, doveva essere detto alla presenza anche dei ragazzi, se no non aveva senso. Essere come gli altri, stare con gli altri non erano per lui belle parole. Nei pochi anni della sua vita di prete, da San Donato di Prato a Barbiana, ne ha sempre pagato il prezzo in contanti, oltre tutto con una impopolarità che pochi altri hanno saputo sopportare come lui, in un Paese di ripicche come il nostro.

Bastava il catechismo

Don Milani ha diffidato sempre delle maiuscole, delle astrazioni, delle belle parole. Ha sempre cercato il campione umano nel fanciullo, nel povero, nel disperato, per verificare le ragioni di Dio sulla autenticità dell'uomo. A chi lo consigliava -alla vigilia del clamoroso processo da cui doveva uscire assolto- di appoggiare la propria difesa alle parole del Concilio, là dove, esplicitamente, auspica una legislazione che rispetti le ragioni degli obiettori di coscienza, rispondeva che gli bastava il catechismo. Il catechismo dice che si deve disubbidire ai genitori e ai superiori quando essi comandano di fare qualcosa di chiaramente cattivo. Per lui la guerra, qualunque guerra, era negativa in partenza, non aveva dubbi: e siccome non aveva dubbi non cercava appoggi nemmeno nel fascino dei testi del Concilio.

Quanto al problema che affrontava, partiva sempre dal particolare, dal campione umano che aveva sottomano dalla mattina alla sera, cioè dai suoi ragazzi. Il suo realismo è tutto qui: da ciò che aveva sempre sotto controllo ha dedotto i termini delle sue accuse, dei suoi rifiuti, delle sue proteste. Lo hanno sempre insospettito i grandi teorici, la gente che in nome della verità sa giocare con le parole a proposito di qualsiasi problema.

Le sue battaglie possono tuttora apparire paradossali -come quella rappresentata da "Lettera a una professoressa"- ma nessuno può negare la coerenza con cui le ha combattute, sino in fondo, restando al margini stessi della Chiesa, dove, in un primo tempo, era stato mandato per punizione, e dove, subito, si era ritrovato come nella zona più ideale per essere libero di dire certe cose. Domani -poiché il suo discorso vale soprattutto per domani- gli uomini di cultura viva, i sociologi autentici, tutti quelli che credono ancora sul serio all'uomo e alla difesa della sua libertà, dovranno fare i conti non tanto con le poche pagine selvagge di quest'uomo che ha visto chiaro e lontano, ma soprattutto con il suo esempio, con il seme di libertà assoluta che egli ha gettato brutalmente nella coscienza dei suoi ragazzi.

Egli ha posto in crisi il concetto d'ubbidienza tradizionale, specialmente all'interno della Chiesa, riproponendo un nuovo modo di conciliare autorità e collaborazione. Ha toccato nel vivo il problema più delicato e complesso dell'attuale vita interna della Chiesa e, indirettamente, il problema stesso della convivenza degli individui e dei popoli. Ha come scoperchiato senza pietà le nostre coscienze, per mettere a nudo l’ipocrisia che le governa, il ragionamento utilitario che le governa, al di là di tutte le belle apparenze.

Io -che non ho mai avuto il coraggio di accostarlo da vivo- lo ringrazio, da morto, di questo dono di provocazione: il più scomodo e salutare che poteva farmi. E che, come sempre, ha pagato per primo, sorridendo di se stesso quel tanto che bastava per non farlo passare per un martire.

 

 

DON LORENZO MILANI, IN CLASSE CON I POVERI

di Carlo Galeotti

Luce, Saronno (Varese), 29 giugno 1997

"Devo tutto quello che so ai giovani operai e contadini cui ho fatto scuola. Quello che loro credevano di stare imparando da me, son io che l'ho imparato da loro. Io insegnavo loro soltanto a esprimersi mentre loro mi hanno insegnato a vivere". Don Lorenzo Milani, il figlio della borghesia fiorentina, si inginocchia davanti ai poveri. E la scuola è il modo attraverso cui il priore di Barbiana decide di mettersi al loro servizio.

Da prete cattolico ortodosso e da intellettuale, qual’era, si accorge immediatamente che per sviluppare una pastorale adeguata non può limitarsi a fare catechismo. Ma deve prima dare gli strumenti affinché operai e contadini possano capire cosa viene loro detto. Deve dare loro... la lingua. È questo il nodo centrale per capire il prete don Milani. A nulla valgono le annessioni di tipo politico di destra o sinistra che siano. Don Lorenzo per giunta è un prete che non fa parte della tradizione cattolica italiana. Non né fa parte per il rigore con cui interpreta le scritture. Non né fa parte perché la sua attenzione di seminarista prima e poi di pastore è all'esperienza francese. E forse proprio per questo, oltre che per il particolare percorso di vita, don Lorenzo è in Italia tra i primi ad occuparsi di una pastorale rivolta agli operai prima e ai contadini poi. Per metterla a punto don Milani scrisse quello che lui stesso definì un libro tecnico: Esperienze pastorali. Un libro di un prete per i preti che in realtà mise in subbuglio il mondo culturale dell'epoca. Personaggi come Luigi Einaudi, don Primo Mazzolari, monsignor Facibeni della Madonnina del Grappa lo apprezzarono. Ma sconvolse la Chiesa. Tanto che l'opera, pur avendo l'imprimatur del vescovo di Firenze, fu ritirata dal commercio dal Sant'Uffizio perché "inopportuna".

Tutta l'opera di don Milani è dedicata alla scuola, una scuola che mira ad elevare i poveri e abbassare i potenti. Anche la sua difesa degli obiettori di coscienza va vista in questo senso. Tanto che una volta inquisito per apologia di reato (l'obiezione di coscienza era punita dalla legge, ndr), confessa in una lettera alla madre: "Per me il processo può essere solo una nuova cattedra per fare scuola".

Quello che è stato una specie di libretto rosso degli anni Sessanta non solo parla di scuola, ma è il prodotto della scrittura collettiva dei ragazzi di Barbiana. Con Lettera a una professoressa, Milani svela la struttura di classe della scuola. E indica quella che potrebbe essere definita una rivoluzione "metastrutturale", basata sulla necessità di dare strumenti espressivi ai poveri. "Perché è solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l'espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli", spiega la scuola di Barbiana nella lettera.

Una "lotta di classe" fondato sulla lingua.

Il 26 giugno del '67 il priore moriva, annientando allo stesso tempo il borghese che era in lui. Mise così in atto quello che scrisse Pier Paolo Pasolini: "Un borghese redento deve rinunciare a tutti i suoi diritti, bandire dalla sua anima, una volta per sempre l'idea di potere". La lezione dei poveri aveva avuto il suo effetto.

 

IL CUORE DI DIO E DI DON MILANI

di Alberto Arbasino

la Repubblica, domenica 5 luglio 1992, pag. 35

ANCHE il lettore più lontano da queste polemiche e tematiche, e veramente naif rispetto ai problemi della scuola, viene forse tirato a riflettere sulle controversie intorno alle conseguenze pratiche della Lettera a una professoressa, 25 anni dopo. Molto tempo fa, ci si limitava a far notare i vantaggi resi dal degrado della nostra scuola agli istituti medi religiosi privati, alla Scuola Tedesca di Milano, al Lycée Chateaubriand di Roma, e in seguito a prestigiose facoltà straniere quali Harvard Business School e London School of Economics. E si prevedeva in concreto una crescente "forbice" qualitativa nel futuro trattamento fra i ricchi che si sarebbero ormai curati in Svizzera con medici e dentisti usciti da scuole selettive (e parcelle basse negli ospedali cantonali), e i poveri pazienti in mano a sanitari passati per scuole assembleari e contestatrici del sapere medico specializzato... Nemmeno si immaginava ancora lo sperpero dei soldi dedicati alla cultura da parte di burocrati formatisi non sui libri e sui monumenti, ma sulla pubblicità alla televisione, la popolarità del vaffanculo, la permissività del chi se ne frega... In questi giorni, il consumatore ingenuo apre il settimanale Cuore, perché contiene quattro pagine di estratti pedagogici di Don Milani; e passa poi a un servizio successivo perché è firmato "Dio", dunque forse un superiore diretto. Ci sarà un nesso? "Dio" propone come "valori caldi": Cuore, la salute, la Juventus, leccare la figa, le donne, gli spinelli, la famiglia, la pace, il Milan, Ridere. Poi scrive: "Oh, adesso che ho fatto la mia tirata etica, posso cazzeggiare libero e giocondo". E propone decine di passatempi a proposito di PIEDI, fra i quali: Andare a piedi scalzi al santuario della Madonna dello Splendore di Giulianova, Leccare i piedi a Moana Pozzi, Scaccolarsi con le dita dei piedi, Schiacciare il Papa coi piedi, Scopare in piedi una ragazza nuda con i tacchi a spillo, Fare il solletico sotto i piedi al Papa durante l’Angelus, Farsi masturbare con le dita dei piedi, ecc. Vedendoli dunque lì insieme, "Don Milani" e "Dio", in una medesima comunità o compagnia, l’utente naif sarà portato a domandarsi: chi avrà preso da chi, in questa strana coppia?

 

E’ LA LINGUA CHE FA UGUALI

di Gualtier Maldé (Giorgio Pecorini)

La Fiera Letteraria - 24 agosto 1967, pagg. 5-7

Otto montanari fra i 14 e i 19 anni guidati dal loro priore. don Lorenzo Milani, un giorno hanno deciso di cercare, tutti insieme, le ragioni del proprio disagio a maneggiare la lingua che s’impara a scuola e un mezzo per uscirne. Aiutati da alcuni amici poco più vecchi, contadini e operai formatisi nella loro stessa scuola, in dieci mesi di 1avoro collettivo hanno scritto la Lettera a una professoressa, quel libriccino di 162 pagine (quindicimila copie in otto settimane) che scardina tutti i sacri principi messi a fondamento della vita scolastica e dell’organizzazione culturale italiana, rivendicando l’uso di una lingua fatta a immagine e somiglianza dell’uomo, ossia buona a risolvere i concreti problemi quotidiani di informazione e di comunicazione.

"E’ solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli. Quando possederemo tutti la parola, gli arrivisti seguitino pure i loro studi. Vadano all’Università, arraffino diplomi, facciano quattrini, assicurino gli specialisti

che occorrono. Basta che non chiedano una fetta più grande di potere come han fatto finora".

Il discorso è chiaro: difatti lo capiscono tutti. Molti se ne entusiasmano, qualcuno se ne indigna. Chi si indigna, parla di falso. Nella Lettera, dice, si sente la mano di don Milani. Stile personalissimo, inconfondibile; altro che redazione collettiva!

La firma non è falsa. Chi vuole la prova la troverà più avanti, nel discorso degli stessi ragazzi. Ecco intanto, utile a tutti, la risposta diretta di don Milani su questo punto. E’ cavata da una delle sue ultimissime lettere, scritta poche settimane prima di morire, mentre i ragazzi finivano di correggere le bozze del libro.

"Mi ero fatto fare una prefazione dall’architetto Michelucci (stazione di Firenze, chiesa dell’Autostrada eccetera) che è come me un maniaco dell’arte anonima e del lavoro d’équipe. Parlava per esempio dei maestri comacini, dei mosaicisti cristiani, delle cattedrali gotiche, delle ferrovie e dell’Autostrada (ponti eccetera), tutte opere di scuola e non di autore. E poi del cinema in cui tutti sono abituati a vedere decine e decine di nomi di cui nessuno riesce esattamente a scindere cosa ha fatto ognuno (regista, soggettista, dialogo, fotografia, musica, costumi, attori...). In conclusione si ricorda forse il nome del regista ma è per esempio pacifico che il soggetto il contenuto cioè talvolta il più non è suo. Ora la prefazione di Michelucci è risultata troppo difficile per i lettori che noi vogliamo e così ho chiesto a quel sant’uomo se potevo non metterla.

Resta però il problema che per me è fondamentale. lo sono in pessime condizioni. Non solo sono a letto da un anno, ma da mesi sono disteso orizzontale e dormicchiante. Stamani colgo un raro momento in cui riesco a star su per scriverti. Se i lettori maliziosi potessero vedermi capirebbero subito che anche in letteratura si può lavorare in équipe come in cine- ma e in architettura. Ma non possiamo insistere sul patetico. Mi occorre dunque che un giornale o due diano per scontato che questo è un lavoro dei ragazzi. [sottolineato nell’originale] Che è un modo nuovo di scrivere e che è l’unico vero e serio. Quello che sembra lo stile personalissimo di don Milani è solo lo stare per mesi su una frase sola togliendo via via tutto quello che si può togliere. Tutti sanno scrivere così purché lo vogliano. E’ solo un problema di non pigrizia.

Su questo libro potevamo stare ancora dei mesi e farlo diventare opera d’arte fino in fondo, ma son cose che invecchiano troppo presto e abbiamo deciso di buttarlo fuori così. Se vuoi maggiori schiarimenti sulle tecniche del lavoro d’équipe dimmelo. Ma devi fare qualcosa per me. Prima di tutto perché è vero quello che ti dico cioè che il lavoro è tutto dei ragazzi salvo la mia regìa (ma regia da povero vecchio moribondo): Poi perché non voglio morire signore cioè autore di libro, ma con la gioia che qualcuno ha capito che per scrivere non occorre né genio né personalità perché ci sono regole oggettive che valgono per tutti e per sempre e l’opera è tanto più alta quanto più le segue e s’avvicina al vero.

Così la classe operaia saprà scrivere meglio di quella borghese. E’ per questo che io ho speso la mia vita e non per farmi incensare dai borghesi come uno di loro. O peggio per far dire ai maliziosi che ho fatto firmare ai ragazzi per evitare le noie dell’imprimatur; Insomma io non so se son riuscito a spiegarti cosa voglio però che come ti dicevo sono addormentato dalla mattina alla mattina, ma se puoi fare qualcosa per me in questo senso te ne sarò grato. Se non hai capito bene vieni per piacere a rifartelo spiegare a voce. Ci tengo sopra a ogni cosa. E’ un dovere che ho verso i ragazzi".

Quanto peso questa regola del maestro avesse nel loro lavoro di gruppo, i ragazzi l’hanno documentato nel libro:

"A voi fa paura un ragazzo che a 15 anni sa cosa vuole. Ci sentite l’influenza del maestro. Guai a chi vi tocca l’Individuo. Il Libero Sviluppo della Personalità è il vostro credo supremo. Della società e dei suoi bisogni non ve ne importa nulla. lo sono un ragazzo influenzato dal maestro e me ne vanto. Se ne vanta anche lui. Sennò la scuola in che consiste? La scuola è l’unica differenza che c’è tra l’uomo e gli animali. Il maestro dà al ragazzo tutto quello che crede, ama, spera. Il ragazzo crescendo ci aggiunge qualche cosa e così l’umanità va avanti. Gli animali non vanno a scuola. Nel Libero Sviluppo della loro Personalità le rondini fanno il nido eguale da millenni.

Un ragazzo che ha un’opinione personale su cose più grandi di lui è un imbecille. Non deve aver soddisfazione. A scuola sì va per ascoltare cosa dice il maestro. Solo rare volte capita qualcosa di nostro di cui la classe e il maestro hanno bisogno. Ma non opinioni e non cose lette. Notizie precise su cose viste coi nostri occhi nelle case, nelle strade, nei boschi".

I ragazzi ci spiegheranno pure, nel loro dibattito, come son riusciti a evitare d’essere tiranneggiati dalla regìa del maestro e a scoprirci anzi il succo più sostanzioso della sua lezione. Ma perché anche noi si possa capirla e quindi valutarla occorre prima di tutto cercarne le radici.

Che cosa ha spinto don Lorenzo Milani a mettere il discorso sulla lingua al centro della sua scuola? E prima ancora: perché un prete secolare ha sentito il bisogno di trasformarsi in maestro, fino al punto di fare della scuola l’attività preminente della sua parrocchia, lo strumento primo della propria attività pastorale? E’ semplice: l’essersi accorto che il popolo in mezzo al quale era stato mandato per predicare il Vangelo non disponeva del minimo di cultura indispensabile a intendere la sua predica: non poteva cioè ascoltarlo:

"Ho visto una costruzione che tenta invano di reggere il comignolo mentre le mancano ancora fondamenta e muri. E allora ne ho avviata un’altra dalle fondamenta, una costruzione un po’ più ragionevole. Fondamento della preghiera liturgica è il possesso della Dottrina. Fondamento della Dottrina è (a mio avviso) quel minimo di padronanza del linguaggio che dovrebbe distinguere l’uomo dalla bestia, ma che manca invece a gran parte di questo popolo.

Lasciatemi dunque il tempo di far le cose per benino, rifacendomi cioè dalla grammatica italiana e su su nel giro di 20 anni vi riempirò di nuovo la chiesa. Ma questa volta d’uomini ardenti, preparati e coerenti. Capaci di resuscitare anche la festa del Titolare se occorrerà, ma incapaci di sdondellar campane o di ornar di lumiere un altare senza aver prima profittato tutto l’anno del sacerdote per sgravarsi volta volta dei loro peccati".

Questo, come quelli che verranno dopo, è un brano delle Esperienze pastorali, il libro pubblicato (e firmato) da don Milani nel 1958. Il problema della lingua, è ovvio, non viene mai impostato fine a se stesso, da filologo, da storico, da letterato eccetera. E’ impostato sempre, al contrario, col problema dell’istruzione del popolo e quindi della scuola, e con l’altro problema della promozione civile del popolo. Sono anzi, tutti e tre, nella vita pastorale di don Milani, le facce diverse ma integrantesi e costantemente ruotanti dello stesso unico problema: restituire all’uomo, a tutti gli uomini, la dignità piena di figli di Dio; e la consapevolezza di tale dignità. Passato da un popolo di pianura (quello della parrocchia di San Donato di Calenzano ove era stato coadiutore del titolare) a Barbiana, trova una situazione ancora peggiore:

"I cittadini li spregiano [i montanari] e hanno quasi ragione per che sono spregevoli perfino a me che sono il loro prete e li amo solo perché me la prendo col mondo e non con loro se sono così. Me la prendo con la storia, coi secoli, col dislivello culturale, con la società che ne è responsabile e così riesco a perdonarli, e aver pietà di loro, ad amarli come si amano dei poveri malatini, degli infelici da Cottolengo in cui si stenta a riconoscere il volto umano. Come si ama un animale domestico. Sì, m’è scappato detto ormai e lo ripeto: come animali inferiori.

A vivere nella solitudine, senza il contrappeso della cultura o del pensiero o di un’intensa spiritualità, sono diventati davvero animali inferiori. E se anche questa parola pare una bestemmia al nostro esser tutti figlioli di uno stesso Padre, la dico per esprimere quanto l’immagine divina sia seppellita in loro sotto un cumulo di sovrastrutture che non sono ne divine ne umane. Io non te li posso neanche descrivere perché sono indescrivibili e perché li amo troppo.

Ecco perché per ora non faccio con convinzione altro che scuola. Non che io abbia della cultura una fiducia magica, come se essa fosse una ricetta infallibile, come se i professori universitari fossero automaticamente tutti più cristiani e avessero il Paradiso assicurato mentre il Paradiso fosse precluso agli indotti pecorai di questi monti.

E’ che i professori se vogliono possono prendere in mano un Vangelo o un Catechismo, leggerli e intendere. Dopo poi potranno fare il diavolo che vorranno: buttarli dalla finestra o metterseli in cuore, s’arrangino, se sceglieranno male sarà peggio per loro.

Ma qui è diverso. Fai conto che qui io mi trovi in un istituto pieno di sordomuti non ancora istruiti. Che ne diresti se pretendessi di evangelizzarli senza aver prima dato loro la parola? I missionari dei sordomuti non fanno così. Fanno scuola della parola per anni e poi dottrina poche ore. E il loro agire è logico, obbligato, perfettamente sacerdotale.

Dopo queste premesse; mi pare di poter dire che la scuola, in questo popolo e in questo momento, non è uno dei tanti metodi possibili, ma mezzo necessario e passaggio obbligato né più né meno di quel che non lo sia la parola per i missionari dell’Istituto Gualandi o la lingua per i missionari in Cina.

Domani invece, quando la scuola avrà riportato alla luce quel volto umano e quella immagine divina che oggi è seppellita sotto secoli di chiusura ermetica, quando saranno miei fratelli non per un retorico senso di solidarietà umana, ma per una reale comunanza d’interessi e di linguaggio, allora smetterò di far scuola e darò loro solo Dottrina e Sacramenti.

Per ora questa attività direttamente sacerdotale mi è preclusa dall’abisso di dislivello umano e perciò non mi sento parroco che nel far scuola. E perciò la scuola mi è sacra come un ottavo Sacramento. Da lei mi attendo (e forse ho già in mano) la chiave, non della conversione, perché questa è segreto di Dio, ma certo dell’evangelizzazione di questo popolo".

A questo punto, tante cose della Lettera a una professoressa si colorano di una luce nuova più giusta. E si spiega il rumore che ha fatto, l’intensità degli entusiasmi e delle indignazioni. I ragazzi, con la regia del loro maestro, hanno scoperto quello di cui avevano bisogno. Fin dove potevano, l’hanno cercato, tutti insieme. Dove non potevano più cercarlo, perché le strutture della nostra decrepita scuola glielo negavano, l’hanno rivendicato. Con la consapevolezza di rivendicare un loro diritto. Il più importante anzi:

"Quando la nuova media fu discussa in Parlamento noi, i muti, si stette zitti perché non c’eravamo. L’Italia contadina assente là dove si parlava della scuola per lei.

Discussioni interminabili tra parti che sembravano opposte ed erano eguali.

Tutti usciti dai licei. Incapaci di vedere un palmo più in là della scuola che li aveva partoriti. Come avrebbe potuto un signorino parlarsi addosso? Sputare su se stesso, sulla cultura deforme che era lui, era le parole stesse che diceva.

I deputati si divisero in due parti. Le destre a proporre il latino. Le sinistre le scienze. Non ci fu uno che pensasse a noi, che ci fosse stato dentro, che avesse faticato a seguire la vostra scuola. Topi di museo le destre. Topi di laboratorio i comunisti. Lontani gli uni e gli altri da noi che non si parla e s’ha bisogno di lingua d’oggi e non di ieri, di lingua e non di specializzazioni".

Qui è la novità grossa, impreveduta. Quella che maggiormente indigna chi s’è indignato: il rifiuto della lingua e della cultura ufficiali, come inutili. Pensate ai presidi e ai professori di lettere preoccupati di quale fine faranno gli studi classici, adesso che tanta gente va a scuola, in una media inferiore eguale per tutti, e tagliata quindi sulla misura del più ignoranti o, come loro dicono, dei "meno dotati". Arrivano otto ragazzacci di montagna a gridargli sul muso: "Che siete colti ve lo dite da voi. Avete letto tutti gli stessi libri. Non c’è nessuno che vi chieda qualcosa di diverso".

Uno degli otto va a Firenze, all’istituto magistrale. Vuol diventare maestro, per fare, quando sarà grande, scuola alla maniera sua, la maniera barbianese. Un giorno gli danno un esercizio su alcuni versi del Foscolo, da volgere in prosa:

Ma ove dorme il furor d’inclite geste

e sien ministri al vivere civile

l’opulenza e il tremore, inutil pompa

e inaugurate immagini dell’Orco

sorgon cippi e marmorei monumenti.

"Il mio sguardo vagava su quelle parole strane senza sapere dove posarsi. Lei mi sorrideva: ‘Su via, son cose facili, le ho spiegate ieri. Non hai studiato’. Era vero. Non lo avevo studiato. Io non dirò mai ai miei scolari che inaugurare vuol dire augurare male. C’è scritto nella nota. Ma è una bugia. L’ha inventata il Foscolo perché non voleva bene ai poveri. Non ha voluto far fatica per noi. Lei mi faceva tenere un quaderno sulle note per costringermi a imparare a mente quella lingua. E io dovevo imparare un’altra lingua per parlare a chi?"

Una lingua "nata morta" come quella del Monti o come quella di Annibal Caro, in cui si continuano a far leggere ai nostri figlioli i poemi di Omero e di Virgilio.

No. Sono altre le cose che i ragazzi devono chiedere alla scuola. E la scuola non può darle se qualcuno non le risolve, prima, il problema di inventare una lingua nuova, viva, vera.

"C’è una materia che non avete nemmeno nel programma: arte dello scrivere.

Basta vedere i giudizi che scrivete sui temi. Ne ho qui una piccola raccolta. Sono constatazioni, non strumenti di lavoro.

‘Infantile. Puerile. Dimostra immaturità. Insufficiente. Banale’. Che gli serve al ragazzo di saperlo? Manderà a scuola il nonno, è più maturo.

Oppure: ‘Contenuto scarso. Concetto modesto. Idee scialbe. Manca la reale partecipazione a ciò che scrivi’. Allora era sbagliato il tema. Non dovevate neanche chiedergli di scrivere.

Oppure: ‘Cerca di migliorare la forma. Forma scorretta. Stentato. Non chiaro. Non costruito bene. Varie improprietà. Cerca d’essere più semplice. Il periodare è contorto. L’espressione non è sempre felice. Devi controllare di più il tuo modo di esprimere le idee’. Non glie l’avete mai insegnato, non credete nemmeno che si possa insegnare, non accettate regole oggettive dell’arte, siete fissati nell’individualismo ottocentesco".

 

 

"PRIMA DI TUTTO C’E' DIO E POI LA VITA ETERNA"

di Gianpaolo Romanato

Jesus, Milano, luglio 1982, pagg. 55-57

Il priore di Barbiana -esatto contrario di un comunista in tonaca come molti a torto si ostinano a dipingerlo- prese alla lettera il "vieni e seguimi" del Vangelo: eppure aveva scoperto Cristo quasi per caso. Col carisma della profezia praticò e insegnò una religione essenziale, senza fronzoli, centrata sulla Parola come fonte di salvezza, e sulla testimonianza.

"Nessuno può accusarmi d'eresia o d'indisciplina. Nessuno d'aver fatto carriera. Ho 42 anni e sono parroco di 42 anime!" Così scriveva don Lorenzo Milani ai giudici che si apprestavano a giudicarlo, nel 1965, per aver difeso l'obiezione di coscienza. Nato in una famiglia in cui ricchezza e cultura erano di casa, egli discese consapevolmente tutti i gradini della scala sociale fino a diventare povero fra i poveri, emarginato fra gli emarginati, analfabeta fra gli analfabeti. Fece l'esperienza che solo le grandi anime cristiane sanno fare: abbandonare la propria famiglia, la propria classe, il proprio ambiente, la propria cultura, gli amici, molti degli stessi confratelli, per andare a condividere la sorte degli ultimi, di quell'immensa e sconosciuta legione che sono gli umiliati e gli offesi della terra.

Ma fatto questo, fece anche qualcosa di più: dal basso della sua posizione di paria fra i paria si mise a giudicare il mondo e lanciò un grido d'angoscia, una domanda di giustizia, che non cessa di ferire la nostra tranquilla coscienza di cristiani dell'ordine e del buon senso. Capovolse il cannocchiale e guardò il mondo non dalla parte che lo ingrandisce, ma da quella che lo rimpicciolisce.

La tentazione della superbia? Forse. Ma se anche la tentazione ci fu, è riscattata dal fatto che egli la pose realmente al servizio degli ultimi. Non giudicò per il gusto di giudicare o per il sottile piacere di esaltare se stesso, giudicò per insegnare a vivere ai piccoli montanari che gli erano stati affidati come parrocchiani, per farne dei cittadini consapevoli e dei cristiani coscienti. Convinto che solo l'uso cosciente e spregiudicato della parola, solo il possesso pieno della lingua possono riscattare il contadino o il montanaro dalla loro secolare emarginazione, don Milani fece il prete facendo prima di tutto il maestro, e fece il maestro insegnando l'uso della lingua, l'arte di parlare e di scrivere. Quella che oggi è una verità da salotto fu l'intuizione profetica dell'austera scuola di Barbiana.

Ripensata oggi, a quindici anni dalla sua morte, in un'Italia che è così cambiata rispetto a quella in cui visse, l'esperienza di don Milani è una delle esperienze cristiane più rigide e integrali. Egli prese alla lettera l'espressione evangelica "la parola si fece carne e abitò fra noi". La prese alla lettera in un duplice senso. Perché si sradicò dal proprio ambiente e si trapiantò in una classe sociale che non era la sua, ma che più della sua sentiva vicina al Cristo ("ci ho messo ventidue anni", scrisse, "per uscire dalla classe sociale che legge L’Espresso e Il Mondo. Non devo farmene ricatturare neanche per un giorno solo"), e perché intese la parola come fonte di vita e di salvezza. Ma per poter esser tale, per poter essere vissuta, la parola deve cadere fra uomini che sappiano intenderla. Per capire il significato della Parola dobbiamo prima capire il significato delle parole.

Di qui la necessità di elevare l'uomo culturalmente, perché si elevi poi anche spiritualmente. Solo un uomo cui sia stata restituita la sua dignità di uomo potrà intendere pienamente la grandezza di Cristo. Certo: il primato non spetta alla giustizia, spetta alla fede, alla salvezza eterna. Ma per recuperare il popolo alla fede bisogna prima dargli la giustizia. "L'ingiustizia sociale", scrive, "non è cattiva (per me prete) perché danneggia i poveri, ma perché è peccato cioè offende Dio e ritarda il suo Regno". Perciò per don Milani fare il prete significò innanzi tutto condividere la sorte degli umili, dei reietti, dei diseredati. Vivere con loro per insegnar loro l'immensa dignità della sofferenza, ma anche le immense possibilità di riscatto che le sono concesse.

"Mi fa tenerezza", scrisse ad un confratello che gli chiedeva consiglio, "il pensare come sei giovane per addentrarti nell'immensa solitudine di chi cerca solo di salvarsi l'anima. Ma solitudine per modo di dire. Si perde tutti i superiori, quasi tutti i confratelli, tutti i signori, quasi tutti gli intellettuali e si trovano in compenso tutti i poveri, gli analfabeti, i deficienti".

La personalità di don Milani può facilmente indurre in equivoco se si dimentica questa sua insistenza sul problema della salvezza eterna. Non è un fatto né casuale né episodico. Nelle lettere ai suoi ragazzi raccomandava soprattutto la confessione, la comunione, la Messa e non tralasciava neppure di ricordar loro che dovevano "giungere così al matrimonio per aver diritto di trovare una donna così". Tutto questo perché? Perché "prima di tutto c'è Dio e poi c'è la vita eterna".

Tutto il contrario d'un prete rosso o d'un comunista in tonaca, come molti pensarono (e forse pensano tuttora). Fu un prete ortodosso e rigoroso fin quasi all'eccesso, moralista fin quasi a sfiorare il moralismo, obbediente senza tentennamenti e senza tentazioni. Ma obbedì sempre in piedi.

La durezza di don Milani, la sua immensa solitudine, possono essere il segno che in lui c'era davvero, in qualche modo, il carisma della profezia. Ma anche senza spingerci troppo in là con giudizi che potrebbero essere azzardati e prematuri, è indubbio che tutta la sua vita sta a testimoniare quanto sia ardua, molto più ardua di quanto siamo abituati a pensare, l'esperienza di chi abbia deciso di prendere Cristo sul serio. Il Cristo del priore di Barbiana infatti non è un rovello intellettuale, non è il tormento della carne, non è la tentazione rivoluzionaria, non è inquietudine interiore macerante e paralizzante. E non è neppure il Cristo edulcorato e sdolcinato di certe pratiche pie. Egli appartiene a quel genere di cristiano, sempre più raro dopo duemila anni di cristianesimo, che prende alla lettera la consegna: vieni e seguimi. La sua religione è essenziale, senza fronzoli e senza glosse: comunione spesso, confessione ancora più spesso, osservanza letterale dei dieci comandamenti. "Se non faccio mai discorsi spirituali ed elevati", scriveva, "è perché non li penso e non li credo. La religione per me consiste solo nell'osservare i 10 comandamenti e confessarsi presto quando non si sono osservati. Tutto il resto o son balle o appartengono a un livello che non è per me e che certo non serve ai poveri".

Il Cristo di don Milani era ricerca ossessiva e ossessionante dell'essenza cristiana, di ciò che, con una piccola ma smisurata parola, chiamiamo la verità (con la minuscola prima ancora che con la maiuscola). "La famiglia cristiana dell'operaio e del contadino", diceva, "ha bisogno di un prete povero, giusto, onesto, distaccato dal denaro e dalla potenza, dalla Confida, dal Governo, capace di dir pane al pane senza prudenza, senza educazione, senza pietà, senza tatto, senza politica, così come sapevano fare i profeti o Giovanni il Battista. Un prete che chiarisca cosa è bene e cosa è male in fatto di rapporti di lavoro e che si schieri dalla parte del giusto, del vero, del debole e smetta di difendere i "suoi" per partito preso, ma li difenda solo in quei pochissimi casi in cui la loro causa coincida perfettamente con la causa cristiana". Siamo talmente avviluppati nelle trame dei rapporti e degli interessi da dimenticare sempre più spesso che Cristo è più grande dei partiti, dei gruppi o delle cause che si definiscono cristiani. Don Milani pagò un prezzo altissimo per aver saputo fare questa distinzione tutte le volte che fu necessario. Si sforzò di essere sempre e soltanto un "partigiano" di Cristo.

Come non è insegnamento da poco l'altro che ci ha lasciato: che Cristo è più grande di tutti coloro che lo servono, per quanto elevato sia il loro grado gerarchico, per quanto importante la loro funzione ecclesiastica. Scrive infatti nella famosa lettera a Nicola Pistelli: il vescovo "ha un campo in cui può trattarci tutti come scolaretti. Ed il sacramento che porta e quello che può dare. In questo campo non possiamo presentarci a lui che in ginocchio. In tutti gli altri ci presenteremo in piedi. Talvolta anche seduti e su cattedre più alte della sua. Quelle in cui Dio ha posto noi e non lui. L'ultimo di noi ne ha almeno una di queste cattedre e il vescovo davanti a lui come uno scolaretto". Sono intuizioni come queste (scritte vent'anni fa, non si dimentichi!, quando davanti ai vescovi ci si prosternava in ginocchio) che testimoniano a favore di don Milani e danno la misura, se non della sua profezia, almeno della sua diversità rispetto al cattolicesimo italiano. Non per nulla era un convertito, nato e cresciuto fuori del "mondo cattolico", che aveva scoperto Cristo quasi per caso ("ho letto la Messa", scrive a un amico nel '42, "ma sai che è più interessante dei "Sei personaggi in cerca d'autore""). Dopo averlo scoperto non lo lasciò più, lo prese alla lettera, lo visse sulla propria carne con la stessa bruciante intensità d'un altro ebreo che s'era convertito diciannove secoli fa: anche il Cristo di don Milani, come quello di San Paolo, divenne "scandalo e stoltezza".

 

IL PRIORE DI BARBIANA

di Vittorio Citterich

Politica, Firenze, 16 maggio 1971, pagg. 25-26

Si devono ancora fare i conti con Don Lorenzo Milani, il quale resta un prete scomodo, anche adesso che sta in Paradiso.

Anzi: direi che la sua "scomodità" si sia accresciuta, specialmente per quanti credono che i morti non sono degli "scomparsi", ma restano viventi ed impegnativi; per chi lo crede soltanto storicamente (nel senso che niente si "perde" di ciò che ha spinto in avanti la Storia degli uomini) e per chi può aggiungere, a questa fiducia razionale, la sconvolgente certezza della Rivelazione.

Perché? Prima di tutto per il fatto che, oggi, l’intensa "esperienza pastorale" del Priore di Barbiana non è più delimitata a coloro che l’hanno seguito (o contrastato) e non è affidata, com’è stato quando egli era ancora con noi, a deformanti polemiche giornalistiche.

La vasta diffusione delle sue Lettere ha fatto in modo che nessuno, tra quanti leggono e pensano, possa dire: "Io quel prete non lo conosco". Quel singolare e forte epistolario, così carico di impeto cristiano, mentre tanti oggi lamentano crisi e sbandamenti, è stato lo strumento di una riscoperta autentica di Don Milani.

In pari tempo si sono accentuati, nella Chiesa e nella società italiana, i temi ed i problemi ai quali egli ha dedicato totalmente la sua vita.

Si è fatta più urgente la necessità che la Chiesa mantenga la parola data con il Concilio, assumendo in sé le attese di coloro che sono gli esclusi della civiltà del benessere e dell’equilibrio del terrore, poiché -come dice nel proemio la Gaudium et Spes- "le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore".

E così, nella società italiana, è sempre più necessaria e decisiva l’attuazione di una "scuola" che sia capace di liberare le nuove generazioni dalla oppressione classista e dalla subordinazione passiva agli schemi storiografici che fanno perno, ancora, sul primato della violenza e della potenza nei rapporti tra i popoli.

Le due indissociabili componenti dell’impegno religioso e civile del Priore di Barbiana sono giustamente sottolineate nella Testimonianza su Lorenzo Milani che Giampaolo Meucci e Alfredo Nesi hanno reso all’Università di Bologna (e adesso pubblicate, nella terza serie dei Quaderni di Corea dalla Libreria Editrice Fiorentina, con tre lettere inedite di don Milani a don Rossi).

Mi sembra giusto collegare l’impegno all’educazione di Don Milani inteso come momento assoluto ed essenziale di "liberazione degli oppressi" (la parola che libera, il Priore che educa alla parola per trasformare i sudditi in popolo sovrano) con il suo modo di essere nella Chiesa "un ribelle nella virtù che è l’obbedienza", uno che non ha mai parlato della Chiesa in terza persona (come annota appunto Don Nesi).

Infatti Lorenzo Milani -lo confermano anche le lettere pubblicate a premessa del Quaderno di cui parliamo- ha coscientemente inserito la sua "ribellione", e la sofferenza che gli è costata l’incomprensione di quanti avevano il dovere pastorale di capirlo, nel grande alveo del rinnovamento della presenza storica nell’epoca contemporanea, senza disperdersi nei piccoli torrenti delle proteste puntigliose.

In questo senso egli è esemplarmente scomodo. Nessuno, oggi, se ne può appropriare, con facilità, né per trovare sostegno al ribellismo particolare, né per canonizzarlo post mortem (in opposizione ai contestatori) dopo avergli dato l’ostracismo quando era vivo.

Riscoprire Don Milani significa convertirsi, e la conversione resta sempre l’evento più difficile, specialmente per i credenti che non vogliono essere superficiali.

Questo vale naturalmente per tutti, per chi considera vitale ed irrinunciabile il proprio radicamento nel "continente" che è la Chiesa istituzionale (i teologi mi perdonino la definizione impropria) e per chi ritiene inevitabile approdare negli "isolotti" (Don Mazzi mi perdoni il gioco di parole).

L’impegno di conversione, infine, riguarda coloro che hanno, nella Chiesa, il mandato di guidare il popolo di Dio ed alcuni dei quali -lo diciamo senza acrimonia, senza polemica, per un dovere di verità- debbono sentire il peso della grave responsabilità che hanno assunto quando hanno voluto porre sotto il moggio la lampada di Don Milani.

Una lampada che, oggi, risplende con una purezza inconsueta e fa scorgere un orizzonte costruttivo.

 

 

 

DON MILANI: UOMO DI FEDE E MAESTRO DI VITA

di Giorgio Straniero

Scuola italiana moderna, Brescia, 15 novembre 1977, pagg. 6-9

Oggi Barbiana, a dieci anni dalla morte di don Lorenzo Milani (26 giugno '67) è un luogo desolato, privo di vita. Di quando in quando qualcuno sale su per la strada polverosa che parte da Vicchio, un ridente paese tra le colline del Mugello, per rendere omaggio alla tomba del priore. Qualche volta si tratta di giornalisti. Solo lo scorso 26 giugno l'ambiente si è improvvisamente animato con decine di autobus e numerosissime macchine giunte contemporaneamente a dimostrare come la figura di don Milani, lungi dall'essere dimenticata, rappresenti un motivo di richiamo attuale per molti che operano nel mondo della scuola, impegnati a realizzare una dimensione spirituale di valori, assunta a fondamento delle scelte tecniche didattiche e metodologiche.

Coloro che hanno conosciuto don Milani (e chi scrive è tra questi, avendo partecipato per circa un mese, nell'estate 1960, ai lavori della scuola di Barbiana) Sono concordi nell'affermare di essersi trovati di fronte ad una personalità eccezionale: un uomo capace di scelte radicali e di estrema fedeltà a queste scelte, un uomo impegnato a trasformare ogni attimo della propria esistenza in occasione di testimonianza del suo profondo amore per gli ultimi, fino ad essere spietato verso quegli atteggiamenti che nei suoi interlocutori giudicava espressione della scelta contraria, dalla parte della difesa di qualsiasi forma di privilegio.

Ma sarebbe un cattivo elogio di don Milani quello di riportare al piano esclusivamente soggettivo la sua testimonianza e limitarsi a prendere atto della buona fede che ha ispirato i suoi atteggiamenti e della profondità del suo modo di sentire. Non si tratta di assolverlo sul piano morale. Si tratta piuttosto di valutare la portata oggettiva del suo messaggio, la profondità delle sue analisi, la fondatezza dei suoi giudizi, la portata delle sue intuizioni in campi che vanno da quello propriamente religioso della sua vocazione sacerdotale a quello politico, a quello pedagogico.

A dieci anni dalla morte dello sconcertante priore di Barbiana, dopo la pubblicazione di due suoi volumi di lettere (che contribuiscono notevolmente ad arricchire il quadro già offerto da Esperienze pastorali, L'obbedienza non è più una virtù e Lettera a una professoressa) è giunto il momento in cui la testimonianza del ricordo di chi l'ha conosciuto deve gradualmente cedere allo studio critico, storico, attraverso i documenti esistenti. Se don Milani merita un posto tra gli educatori, tra i testimoni spirituali di questo secolo, è attraverso questa non facile opera di revisione critica di quanto egli ha detto e fatto che gli si può rendere giustizia, risarcendolo "post mortem (ma a lui sarebbe andato bene anche così) delle manifestazioni di ostilità di cui fu oggetto in vita.

In questa sede può essere opportuno cercare di offrire alcuni spunti di riflessione utili alla conoscenza di don Milani in ciò che riguarda le motivazioni che ispirano le sue scelte nel campo dell'educazione.

Uomo di Dio e maestro di umanità

1. Il fondamento etico-religioso dell'insegnamento. La relazione intercorrente tra la dimensione di fede e le scelte operative di don Milani è stata oggetto di interpretazioni contrastanti. C'è stato chi ha insistito soprattutto sul carattere laico dell'insegnamento da lui impartito nella scuola popolare di San Donato di Calenzano prima ed in quella di Barbiana poi. Nella prima, cercò di radunare la gioventù dispersa e di impegnarla in un lavoro serio di approfondimento degli argomenti che toccavano direttamente la vita di lavoro ed i rapporti sociali di ciascuno. Nella seconda, fece in modo che le famiglie che abitavano nei casolari sparsi tra le colline rinunciassero a mandare i bambini dell'età dell'obbligo al pascolo per mandarli invece alla sua scuola, che aveva anche lo scopo di consentire il conseguimento della licenza elementare e di quella di scuola media. Nell'uno e nell'altro caso lo scopo dichiarato, la ragione per la quale chiedeva ascolto e consenso al suo programma, erano di realizzare la promozione umana e sociale delle classi più umili. Non era un mezzo per "attirare le anime, per guadagnarsi simpatie per poi strumentalizzarle in funzione della lezione di catechismo e di una maggiore frequenza alla chiesa. La scuola aveva lo scopo di rimediare ad uno stato di inferiorità in cui molti si trovavano, era un'esigenza di giustizia sociale.

C'è stato, invece, chi ha posto l'accento sullo stretto legame, anch'esso più volte dichiarato da don Milani, tra la sua missione di parroco e l'azione che svolgeva. Il suo era un modo per servire coloro che gli erano stati affidati nei loro bisogni spirituali fondamentali. Egli non se la sentiva di annunciare semplicemente il Vangelo a chi soffriva di una secolare ingiustizia. Si sentiva in dovere di condividerne anzitutto la povertà e di operare per il suo riscatto umano. Poiché alla radice dell'inferiorità sociale c'era l'assenza di cultura, in particolare della padronanza di linguaggio, si trattava di rimuovere questo blocco.

Solo a queste condizioni don Milani si sentiva legittimato anche come sacerdote. A questo punto poteva svolgere la sua missione sacerdotale di pastore d'anime e offrire la parola di Dio: quella appunto del Vangelo ridotta all'essenziale. Paradossalmente, il suo modo di essere prete si manifestava con maggior accanimento nella parte umana che in quella religiosa. Questo avveniva perché egli riteneva che, cristianamente, aveva il diritto-dovere di pretendere, per così dire, che ciascuno si impegnasse per la propria realizzazione umana, mentre si riservava il compito di proporre ad una scelta libera la dimensione della fede.

L’impegno fondamentale

L'aspetto laico e la motivazione religiosa dell'opera di insegnamento, erano ambedue realmente presenti in don Milani. Abbiamo incontrato, recentemente, un uomo che ha condiviso con don Milani, involontariamente su un piano di contrapposizione, un momento assai delicato, quello del suo allontanamento da S. Donato di Calenzano. Si tratta di don Antonio Santacatterina, colui che appunto fu chiamato, nel '54, a sostituire don Milani come cappellano a S. Donato, dove ancora si trova come parroco. Don Milani -ha detto- accolse la sua rimozione con spirito di ubbidienza, lasciandomi il difficile compito di sostituirlo. Egli aveva formato dei ragazzi togliendoli dai bar e dalla strada, valendosi di un personalissimo carisma, per il quale riteneva di poter assumere dei toni intransigenti. La gente si era divisa in due gruppi: quelli che lo seguivano nella sua attività e che ne imitavano direi anche fisicamente gli atteggiamenti, raccogliendosi nel parlare e mirando direttamente alla sostanza del discorso; e quelli che erano rimasti sconcertati dalle sue violente polemiche sociali. La scuola popolare costituiva per lui un impegno fondamentale nella sua qualità di cappellano. Don Milani attuava la sua idea pastorale con assoluto rigore. Per parte mia cercai di ricomporre l'unità tra gli animi divisi non sentendomi di ripetere la sua esperienza e neppure di condannarla".

Don Milani, dunque, non intendeva annunciare il Vangelo in astratto, ma riteneva d'avere il compito, proprio per fedeltà alla sua missione sacerdotale, di colmare un vuoto sul piano della natura. Con assoluta intransigenza si dedicava a tempo pieno alla sua opera di insegnante nel campo profano, laico", dei valori naturali. Nello scrivere ad un giovane prete sul tema dei divertimenti con i quali attirare in Chiesa i ragazzi, fatto che rifiutava con toni che si richiamavano alle più aspre forme di ascetismo medievale o alle più austere pagine dei pensatori giansenisti, don Milani ci dà una idea molto chiara della sua concezione del prete. "Non so cosa dirti del ping-pong -scriveva a don Ezio Palombo, nel '55- io son sicuro che se lo spezzi nel mezzo e se in conseguenza di ciò non avrai più nessun ragazzo d'intorno non morrà nessuno. Avrai più tempo per pensare, più silenzio, e in più pian piano andrai costruendo quell'immagine di prete più vera e degna di te che coll'andare del tempo attirerà col suo valore intrinseco molto più i ragazzi che il ping-pong ".

Dalla parte degli ultimi.

2. La scuola come strumento di elevazione sociale. Questa scelta di don Milani, si è visto, ha precise radici evangeliche. Discende direttamente dal Vangelo il dovere di dare espressione concreta all'amore per il prossimo, e amare significa soprattutto per don Milani aiutare gli altri nei loro bisogni. Il cristiano deve, dunque, impegnarsi anche per attuare la giustizia sociale. Essere cristiani vuol dire soprattutto essere dediti alla causa dei poveri. Non essere dediti alla causa dei poveri, sia per egoismo, sia per indifferenza, significa essere cattivi cristiani, più o meno in buona fede.

Negli anni in cui è maturata l'esperienza di Barbiana, la scuola dell'obbligo era ancora uno strumento di selezione sociale. Statistiche alla mano, don Milani dimostrò che essa colpiva quasi esclusivamente i ceti più bassi. Nella Lettera a una professoressa fu scritto: "Voi dite di aver bocciato i cretini e gli svogliati. Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri. Ma Dio non fa questi dispetti ai poveri. E’ più facile che i dispettosi siate voi". Compito di una scuola popolare è quindi quello di operare nel senso opposto della scuola che boccia. Non si tratta cioè di premiare i migliori, ma di dedicare ogni sforzo per consentire ad ognuno di acquisire il massimo di conoscenza possibile alla sua natura. Conoscenza utile, quella che serve per la vita e che dovrebbe essere l'oggetto dei programmi ufficiali della scuola dell'obbligo e della scuola che prepara i maestri e gli insegnanti della scuola media,

Don Milani semplifica al massimo il cristianesimo: lasciare ogni cosa per dedicarsi alla causa dei poveri. Il modo più giusto per lui prete è quello, secondo il famoso detto del saggio cinese, di non limitarsi di dare un pesce a chi ha fame, per farlo mangiare un giorno, ma di insegnargli a pescare, così mangerà sempre. Questo esempio ci fu personalmente fatto da don Milani. "Però bisogna anche dargli il pesce, se no lo freghi", aggiunse col suo linguaggio brusco. Il concetto si trova espresso in una lettera a Francuccio, dove dice: L'elemosina è orribile quando chi la fa crede d'essersi messo a posto davanti a Dio e agli uomini. La politica è altrettanto orribile quando chi la fa crede d'essere dispensato dal sentire i bisogni immediati di quelli cui l'effetto della politica non è ancora arrivato. E’ evidente che oggi bisogna con una mano manovrare le leve profonde (politica, sindacato, scuola) e con l'altra le leve piccine ma immediate dell'elemosina.

Se la deduzione dar Vangelo di un'istanza morale è diretta, non per questo don Milani opera una riduzione del cristianesimo a ideologia. La dimensione del temporale conserva pienamente la sua autonomia di organizzazione, nel senso della laicità delle strutture e della distinzione tra il piano dei valori naturali, comune a tutti gli uomini e oggetto di una ricerca di filosofia politica a carattere non confessionale, e il piano dei valori soprannaturali che definiscono l'identità del cristiano. In qualità di prete don Milani afferma con sicurezza l'esigenza della promozione umana e quindi del riscatto delle classi più umili, ma non indica dei modelli di organizzazione politica e sociale. Delle realtà esistenti giudica comunque le storture, le contraddizioni.

 

Non un esempio da imitare, ma un messaggio da rivivere

3. La metodologia educativa. Don Milani ha dato vita ad un'esperienza educativa che ha rappresentato anche un'offensiva polemica nei confronti della realtà scolastica e delle metodologie educati ve in essa adottate. "Don Milani era un maestro dolcissimo -ci ha detto il giudice Meucci, che è stato in consuetudine con lui ma era anche un maestro che allo spettatore esterno poteva apparire duro e intransigente. I suoi allievi sapevano che quello che chiedeva loro era possibile e rappresentava un obiettivo necessario per la loro realizzazione".

In una lettera agli allievi di Mario Lodi a Piadena, la scuola di Barbiana fornisce una scheda di autopresentazione molto significativa: "La nostra scuola è privata -vi si legge- E’ in due stanze della canonica più due che ci servono da officina. D'inverno ci stiamo un po' stretti. Ma da aprile a ottobre facciamo scuola all'aperto e allora il posto non ci manca. Ora siamo 29. Tre bambine e 26 ragazzi. (...) Il più piccolo di noi ha 11 anni, il più grande 18. I più piccoli fanno la prima media. Poi c'è una seconda e una terza industriali. Quelli che hanno finito le industriali studiano altre lingue straniere e disegno meccanico. Le lingue sono: il francese, l'inglese, lo spagnolo e il tedesco. Francuccio che vuole fare il missionario comincia ora anche l'arabo. L'orario è dalle otto di mattina alle sette e mezzo di sera. C'è una breve interruzione per mangiare. La mattina prima delle otto quelli più vicini in genere lavorano in casa loro nella loro stalla o a spezzare legna. Non facciamo mai ricreazione e mai nessun gioco. Quando c'è la neve usciamo un'ora dopo mangiato e d'estate nuotiamo un'ora in una piccola piscina che abbiamo costruito noi. Queste non le chiamiamo ricreazioni ma materie scolastiche particolarmente appassionanti. Il priore ce le fa imparare solo perché potranno esserci utili nella vita. I giorni di scuola sono 365 l'anno. 366 negli anni bisestili".

Il ragazzo del popolo non deve perdere tempo nel periodo della sua formazione, soprattutto se a fatica ha ottenuto di essere tolto dai campi per andare a scuola. Ogni momento della sua giornata deve essere impiegato nello studio. Così ogni giorno della sua vita. E nello studio non deve badare ad essere più bravo degli altri, ma ad aiutare chi ne ha bisogno.

Le regole della scuola di don Milani sono adatte alla psicologia e alle esigenze di sviluppo spirituale e fisico dei fanciulli e degli adolescenti. Due osservazioni vanno fatte: a) si tratta di regole formulate per quella particolare scuola che era Barbiana; b) la loro rigidezza viene notevolmente temperata nella realtà dei fatti. I ragazzi di Barbiana non erano ragazzi di città, vittime dello "smog" e della vita sedentaria, ma erano abituati a fare chilometri a piedi, a salire sugli alberi e a svolgere attività manuali all'aperto sulle magnifiche colline del Mugello. La scuola non aveva il carattere passivizzante e monotono dato dalle metodologie tradizionali, ma era fatta per l'intero pomeriggio di sedute comuni durante le quali si discorreva all'interno e con gli ospiti dei problemi più vari. Le regole di don Milani sono opposte provocatoriamente alla scuola tradizionale. Certamente risentono della tendenza di don Milani a semplificare drasticamente e non potrebbero essere generalizzate senza rischio. Quella di Barbiana era la scuola di don Milani organizzata in conseguenza di una scelta radicale compiuta dalla sua persona in determinate circostanze ambientali. Il senso ed il valore della sua scelta sono tuttavia un elemento importante di riflessione per chiunque intenda impegnarsi nel campo della scuola e anche in quello più ampio della politica. La sua esperienza è irripetibile, ma lascia un segno in chiunque l'accosti.

 

 

 

DON MILANI RESTA SCOMODO

La validità della sua testimonianza a dieci anni dalla morte

di Giorgio Pecorini

Paese Sera, Roma, sabato 25 giugno 1977

Quando il 26 giugno 1967, moriva a Firenze don Lorenzo Milani egli aveva compiuto 44 anni da trenta giorni giusti. Da un mese e mezzo era uscita "Lettera a una professoressa", mancavano undici mesi al Maggio francese, un anno e mezzo all'Autunno sindacale italiano.

Con tutti gli articoli, i saggi, i libri pubblicati, con tutte le tesi di laurea discusse, con tutti i dibattiti, le tavole rotonde, i seminari organizzati; e nonostante le centinaia di inediti stampati, nessuno ha ancora saputo o potuto o voluto fare il bilancio di che cosa davvero è stata, in questi dieci anni, la lezione di don Milani, di chi davvero se ne è giovato e come, di chi l'ha rifiutata e perché. Nessuno ha neppure arrischiato il preventivo di che cosa diventerà quella lezione, quando le nostre corte prospettive d'oggi si saranno allungate, quando alcuni almeno fra gli altri suoi più sconvolgenti inediti saranno resi noti.

"Queste lettere, documenti di una vita di lotte dure e di riflessione rigorosa, scuoteranno e turberanno profondamente tutti i lettori", aveva predetto Tullio De Mauro recensendo su questo stesso giornale (29 maggio 1970) il primo volume degli inediti "Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana", Mondadori editore).

Ecco: quello che manca è proprio la documentazione e la ricostruzione, dall'interno della biografia e dell'opera di don Milani, di quelle lotte e .di quelle riflessioni. Un bilancio, appunto, fatto per scuotere e turbare profondamente chiunque lo scorra: e insieme per mettergli a disposizione un patrimonio di idee, di proposte e di linguaggio che non ha precedenti e raffronti nella storia culturale e civile di Italia. Un bilancio di cui si deve almeno cominciare a mettere in fila le voci, sia pure alla rinfusa, senza la pretesa cioè di ordinarle in progressione logica e in scala gerarchica.

Il Partito italiano laureati

Le prime due voci che saltano alla mente sono quelle della cultura e della scuola. E contengono materia per un processo non indiziario ma al contrario documentatissimo contro chi ha fatto il liceo, cioè contro la classe dirigente del paese, quel superpartito che passa dentro tutti gli altri partiti, il Pil, Partito italiano laureati. "Alle Camere i laureati sono il 77 per cento. Dovrebbero rappresentare gli elettori. Ma gli elettori laureati sono 1'1,8 per cento. Operai e sindacalisti alle Camere 8.4 per cento. Fra gli elettori 51,1 per cento. Contadini alle Camere 0,1 per cento. Fra gli elettori 2,8 per cento. In conclusione vanno a far leggi nuove quelli cui vanno bene le leggi vecchie. Gli unici che non sono mai vissuti dentro le cose da cambiare. Gli unici che non sono competenti di politica". ("Lettera a una professoressa", p. 76).

La scuola, lasciata in mano a ministri, funzionari e insegnanti appartenenti a quella razza laureata, s'è ridotta a essere "un ospedale che cura i sani e respinge i malati". E "diventa uno strumento di differenziazione sempre più irrimediabile". Perché "la cultura vera, quella che ancora non ha posseduto nessun uomo, è fatta di due cose: appartenere alla massa e possedere la parola. Una scuola che seleziona distrugge la cultura. Ai poveri toglie il mezzo di espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose".

Viene subito dopo la voce dell'arte, che è "il contrario della pigrizia". Ecco perché "la teoria del genio è un'invenzione borghese" che "nasce da razzismo e pigrizia mescolati insieme". ("Consegnandomi un tema con un 4 lei mi disse: "Scrittori si nasce, non si diventa". Ma intanto prende lo stipendio come insegnante di italiano"). Ed è una voce tutta in attivo, se la si imposta nel modo giusto: "Abbiamo capito cos'è l'arte. E' voler male a qualcuno o a qualche cosa. Ripensarci sopra a lungo. Farsi aiutare dagli amici in un paziente lavoro di squadra. Pian piano viene fuori quello che di vero c'è sotto l'odio. Nasce l'opera d'arte: una mano tesa al nemico perché cambi".

Tanto mescolata a quella dell'arte da confondercisi, è la sottovoce della lingua: lo strumento che davvero "fa eguali i cittadini, come la costituzione vuole; ma non nel senso minimalista e consolatorio della pubblica istruzione Malfatti proponendo l'anno scorso questa frase, scippata dal suo contesto, a esercitazione retorica per gli esami di maturità. Fare eguali i cittadini significa dare a ciascuno di essi gli strumenti per diventare sovrani e la forza (culturale, morale e politica) per esercitare di fatto, ogni giorno, l'acquisita sovranità.

La voce della politica segue immediatamente: "Ho capito che il mio problema è eguale al tuo: sortirne da soli è egoismo, sortirne insieme è la politica".

Una voce da cui se ne distacca (o forse invece la precede?) un’altra: quella del fascismo: "Ventotto apolitici più tre fascisti eguale trentun fascisti ". E' un conto grosso. Don Milani ha messo in colonna gli addendi, i suoi allievi della scuola di Barbiana hanno tirato la somma. E' un conto vecchio. Che fa paura. Che nessuno vuol pagare. Un conto aperto, che ci pesa addosso come un'ipoteca. Che può portarci al fallimento tutti, colpevoli e innocenti, senza neppure il confronto [forse conforto, n.d.M.M.] di potere, poi, gridare all'ingiustizia.

Perché anche l'innocente diventa colpevole, quando manca al preciso dovere di non farsi complice delle colpe altrui.

"Tanto è ladro chi ruba che chi para il sacco" aveva scritto don Milani nella famosa "Lettera ai giudici"; e aveva messo l'antico proverbio proprio a chiudere la lunga colonna degli addendi. Tanto è fascista, cioè, chi porta la camicia nera e usa il manganello che chi, in borghese e disarmato lascia fare e tira diritto, per non sporcarsi le mani e non guastarsi l'appetito e la digestione.

Questa è la radice del fascismo: la paura di andare al fondo delle cose. La furbizia di badare soltanto a se stessi, di spendere ogni energia nel superfluo, in modo da non avanzare tempo né voglia per l'essenziale. La rinuncia a guardare con i propri occhi, a giudicare con la propria testa, a decidere secondo la propria coscienza, per la speranza di mettersi al sicuro, dietro l'autorità della legge o sotto l'arbitrio della forza o al riparo del privilegio, non importa: la soddisfazione insomma di non avere grane.

Ed è qui che si apre un'altra drammatica voce: quella dell'obbedienza. Essa non solo "non è più virtù ma la più subdola delle tentazioni": addirittura l'alibi del criminale nazista, "cittadino onestissimo e obbediente che registra le casse di sapone. Si farebbe scrupolo a sbagliare una cifra ma non domanda se è sapone fatto con carne d’uomo".

Il bilancio tocca poi una delle voci più sconcertanti e rivoluzionarie: quella del dissenso cattolico. Per chi crede, esiste pur sempre un obbligo d'obbedienza, che per il prete è addirittura un voto. Ma quando e come e a chi bisogna obbedire?

La ribellione dei poveri

E' certo la voce più difficile da impostare, per chi non crede; ma appunto qui sta la sua importanza e insieme la sua suggestione: renderla comprensibile anche agli atei, come prova di rigorosa coerenza, come radice personalissima, imperscrutabile, indiscutibile di testimonianza; una radice da cui cresce un tronco pubblico, individuale e utilizzabile politicamente. Il discorso è difficile, duro; rischia di apparire sgradevole, di risultare scostante. Ma occorre Pure tentare di farlo. E' il discorso della profonda differenza fra don Milani e Barbiana da una parte e tutti i possibili don Mazzi e Isolotti dall’altra.

Il discorso della produttività politica della testimonianza di don Milani e della provocazione di Barbiana le collega alle altre, compiute contro i poveri, gli emarginati, i diseredati; e contro di esse organizza e guida la ribellione.

Altro nodo centrale, altra occasione apparente di paradossi, la voce sul volontarismo, o, più donmilanescamente, sul celibato: nel momento in cui molti preti sono pronti a scendere in piazza per chiedere moglie, don Milani predica il celibato oltre che per i sacerdoti per i maestri, per i sindacalisti, per tutti coloro che scelgono di lavorare non per fare carriera ma al servizio di altri uomini.

La voce sindacato e sciopero: la lotta di classe come unico rimedio possibile contro la prepotenza e lo sfruttamento classista. "Attenzione ai vocaboli: il classismo dei ricchi si chiama interclassismo. L’anticlassismo i ricchi lo chiamano classismo. La lotta di classe quando la fanno i signori diventa signorile". Lo sciopero perciò resta, col voto, l’unica arma, legittima e incruenta, a disposizione degli sfruttati e degli oppressi. Ma può diventare "incidente" se viene usato in modo corporativo, per conquistare, accrescere e difendere i privilegi di pochi a danno dei diritti del popolo. Alcune volte, per esempio lo sciopero degli insegnanti: "Ci sono professori che fanno ripetizioni a pagamento. La mattina sono pagati da noi per fare la scuola uguale per tutti, la sera prendono denari dai più ricchi per fare scuola diversa ai signorini. A giugno, a spese nostre, siedono in tribunale e giudicano le differenze. Se un impiegatuccio comunale, a casa sua, a caro prezzo, facesse certificati presto e bene, e allo sportello li facesse lentamente e inservibili, andrebbe dentro. Ma non va dentro un professore che dice a una mamma: "non ce la fa, lo mandi a ripetizione".

Tante altre voci ci sono da identificare, da collegare, da smembrare o al contrario da raggruppare. Ma fra tutte ce n'è una attualissima e che tocca direttamente i giornali e i giornalisti: la voce dell'informazione.

"Perché il lettore non abbia sospetti su di noi diremo nella tabella che segue chi siamo, che mestiere facciamo, quanto guadag[i]namo, per chi votiamo e altre notizie che mostreranno che non intendiamo nascondere niente": è un passo inedito del progetto di un giornale popolare, redatto da don Milani su richiesta di un gruppo di sindacalisti. Progetto mai attuato.

Da un altro inedito (appunti di lettura della prima versione di "Esperienze pastorali", per fissare i criteri di correzione): "Di chi non ha educazione ci si fida di più. Bisogna che il lettore si renda conto che prima di aprir bocca non consulto altro principio se non quello della verità e che non esito per lei a calpestare carità, spirito di corpo, onore mio, educazione, edificazione".

UN MISSIONARIO IN TOSCANA

di Giano Accame

Il Borghese, Milano, 8 gennaio 1959

La Suprema Santa Congregazione del Santo Uffizio ha ordinato nei giorni scorsi il ritiro dal commercio delle Esperienze Pastorali di don Lorenzo Milani, (di cui noi fummo i primi a denunciare [sono illeggibili due parole nel testo. N.d.MM] eretico) vietandone ogni traduzione e ristampa.

Questo provvedimento par destinato a far cessare la breve fortuna di un libro apparso nella primavera scorsa e immediatamente accolto con grandi entusiasmi come la "Capanna dello zio Tom" dell’apertura a sinistra. Don Lorenzo Milani vi aveva infatti condensato il lamento e le pene degli ambienti clerical-sindacalisti, costretti dalla disciplina vaticana a far finta di avversare i socialcomunisti, nemici amatissimi.

Gli atteggiamenti di Don Milani nei confronti del marxismo fanno ricordare le prime mormorazioni sulla "guerra non sentita", diffuse da quei fascisti che si preparavano a tagliare la corda e che, pur continuando a sostenere meccanicamente l’infallibilità di Mussolini, cominciavano a adombrare la crisi di coscienza, sentendosi vittime dell’incomprensione, sacrificati sullo scomodo altare del dovere. Allo stesso modo don Milani scrive: "Quando quattr’anni or fa arrivò l’ordine di essere severi coi comunisti io l’ho ubbidito [Bontà sua!]. Per quel decreto mi son lasciato odiare, abbandonare, disprezzare da tanti miei poveri figlioli. Non ho alzato un lamento contro il Papa perché sapevo che ha ragione. Ma ora che sono stato quattr’anni sulla breccia per lui, ora che con tanta sofferenza ho chiarito ai poveri l’assoluto rifiuto del marxismo da parte della Chiesa e mi[o], e ci ho rimesso tanti miei figlioli, sangue del mio sangue, ora non voglio sentirmi dare del demagogo solo perché vo in cerca delle pecorelle smarrite. Voglio essere trattato alla pari dei missionari".

Egli è "missionario" in provincia di Firenze; a due passi, quindi dal centro universale del cattolicesimo; però vorrebbe l’indennità di guerra e le medaglie, come quegli ufficiali di Stato Maggiore che avevano la loro prima linea negli uffici di via Venti Settembre. Missionario si sente perché il Papa lo ha mandato allo sbaraglio contro i comunisti, che sono maggioranza nel suo paese.

Le Esperienze pastorali sono dedicate ai preti cinesi, che verranno a riconvertir l’Italia dopo che la ribellione delle plebi oppresse avrà giustamente raso al suolo le chiese e sterminato il clero collaborazionista con l’infame borghesia. Un macabro artificio tipografico rende ancor meglio il concetto: il libro si chiude con una frase troncata a metà, e uno spruzzo di sangue lo suggella: un immaginario vescovo cinese fra mille anni poi annoterà Sanguis iste non est venerandus.

Perché non è venerabile quel sangue? Don Milani, "povero sacerdote bianco della fine del II millennio", lo spiega in una "lettera dall’oltretomba riservata e segretissima ai missionari cinesi". Dice: "Cari e venerabili fratelli, voi certo non vi saprete capacitare come prima di cadere noi non abbiamo messo la scure alla radice dell’ingiustizia sociale. E’ stato l’amore dell’‘ordine’ che ci ha accecato. Non abbiamo odiato i poveri come la storia dirà di noi. Abbiamo solo dormito. E’ nel dormiveglia che abbiamo fornicato col liberalismo di Degasperi, coi congressi eucaristici di Franco. Ci pareva che la loro prudenza ci potesse salvare. Troppe estranee cause con quella del Cristo abbiamo mescolato. Essere uccisi dai poveri non è un glorioso martirio. Saprà il Cristo rimediare alla nostra inettitudine. E’ lui che ha posto nel cuore dei poveri la sete di giustizia. Lui dunque dovranno ben ritrovare insieme con lei quando avranno distrutto i suoi templi, sbugiardati i suoi assonnati sacerdoti..."

Con questa prosa di sapore iettatorio don Milani ha quindi brillantemente liquidato la "chiesa del silenzio", le migliaia di religiosi massacrati in Spagna, i confratelli caduti in tutto il mondo per mano dei "poveri", la cui "sete di giustizia" sarebbe solo apparentemente di marca bolscevica: in realtà è Gesù Cristo stesso che l’ispira, che marcia in testa alle bandiere rosse della rivoluzione antiborghese.

Don Milani è in preda al complesso del lampione: vede già tutti appesi e ne gode; si sente già stringere la corda al collo e in una esplosione di masochistica follia batte le mani, applaude, invoca l’espiazione per aver fornicato con Franco e con Degasperi. Ma forse in questo torbido gioco di immaginazione c’è un grano di furbizia; l’alibi dell’autocritica potrebbe essere il salvacondotto da esibire alla folla, che un giorno si presenterà alla sua parrocchia cantando gli inni blasfemi della musa proletaria:

Noi vogliam Dio in camicia rossa,

E la Madonna col mitra in man

E san Giuseppe a scavar la fossa,

Per seppellire i democristian!

Don Milani deve aver sentito questa canzonetta, che era abbastanza in voga prima del 18 aprile ’48 nelle zone infeudate al comunismo: noi abbiamo l’impressione che molte vocazioni "sociali" fra i cattolici più suggestionabili siano nate proprio come una risposta della vigliaccheria a quel clima. Non per nulla si è insegnato agli italiani che quando le cose vanno male il rimedio migliore è quello di buttarsi dalla parte del nemico!

* * *

L’Osservatore Romano, nel dar notizia del provvedimento del Santo Uffizio, tenta di spiegare come mai ad un libro del genere sia stato concesso il nihil obstat e l’imprimatur per la pubblicazione. L’organo vaticano testualmente afferma: "Nella concessione dell’approvazione ecclesiastica è intervenuta tutta una serie di equivoci, ai quali è completamente estranea la superiore Autorità Diocesana: sono appunto questi equivoci che hanno impedito un esauriente esame del libro".

L’organo vaticano dimostra d’aver ben compreso che l’aspetto più grave del "caso Milani" non risiede nella particolare figura dell’autore, ma nei consensi che il suo pericoloso fanatismo ha riscosso in diversi ambienti clericali e nella stampa della Democrazia Cristiana. E cerca appunto di circoscrivere il fenomeno, di isolarlo, di addossare tutte le responsabilità al solo don Milani. A nostro avviso questo non è giusto, e soprattutto non giova a chiarire i veri equivoci che stanno alla base delle sconcertanti Esperienze pastorali.

Leggendo l’Osservatore Romano sembrerebbe quasi che don Milani, per estorcere il consenso delle autorità ecclesiastiche al suo libro, si sia valso di una serie di diabolici raggiri.

Non è vero: con quel suo libro Don Milani si sentiva perfettamente a posto e in linea con atteggiamenti analoghi, che l’autorità ecclesiastica non ha mai disapprovato. Il suo zelo filosinistrorso è soltanto più sciocco e meno abile di quello che circola come moneta corrente e accettata in tutto l’ambiente cristiano-sociale.

Il libro è stato pubblicato dalla stessa casa editrice fiorentina che in un suo sgabuzzino ospitò il singolare "ufficio esteri" dell’onorevole La Pira, dopo il forzato abbandono di Palazzo Vecchio. Di lì partirono, fra l’altro, le prime mosse del "colloquio mediterraneo". E’ una casa editrice di aperta ispirazione cattolica, che pubblica anche gli scritti del Sindaco Santo.

Inoltre le Esperienze pastorali sono precedute da una prefazione di ventisei pagine, stilata da Monsignor Giuseppe D’Avack Arcivescovo di Camerino. Il contenuto della prefazione porta ad escludere che sia mancato, almeno da parte di Monsignor D’Avack, quello "esauriente esame del libro" cui accenna, come argomento di giustificazione, L’Osservatore Romano.

L’arcivescovo dopo attento esame deve aver sentito un po’ di puzza di bruciato, ma non gliene importa. Dice infatti: "Ma allora, adesso che ho letto: anche quella conclusione ‘tragica e cupa e nera e disfattista’, non mi sentirò più di... ‘prefazionare’? Ecco: più che mai, Le scrivo volentieri queste povere parole. Lei me le ha chieste insistentemente; ma se non me le avesse chieste e soltanto mi avesse fatto leggere il Suo scritto, sarei stato io a offrire a Lei una mia parola. Non può essere però soltanto una ‘prefazione’; sarà anche un caldissimo invito a leggere e meditare; e sarà quasi un completare la Sua conclusione, cavando fuori quel che sempre mi tormenta in fondo all’anima; sarà rendere ancora più esplicita quella Sua conclusione".

A giudicare, dunque, dalla prefazione, l’eminente prelato non ha suggerito a Don Milani di eliminare dalla sua vivace prosa le espressioni come "puttana" o "coglioni", che mal si addicono allo stile castigato di un prete; o di non ostentare il proposito di "eliminare la borghesia dalla scena politica e sociale"; o di non insolentire tutti gli altri sacerdoti, morti o morituri, che non condividono i suoi esasperati propositi di eversione sociale. Anzi l’Arcivescovo sembra voglia rincarar la dose, nelle sue conclusioni.

Il preteso equivoco con cui Don Milani avrebbe conquistato la benevolenza dei suoi superiori è venuto fuori soltanto dopo il provvedimento di censura; prima andavano d’accordo. Nello stemma dell’Arcivescovo di Camerino si legge questo motto: Sustine et abstine; probabilmente Monsignor D’Avack lo traduce alla democristiana: "Sostieni e tirati indietro".

Ora le Esperienze pastorali vengon buttate via, come una mosca caduta dentro il piatto. Ma il vero equivoco è di tutt’altro genere: è il polpettone cristiano-sociale di cui molti cattolici continueranno a cibarsi anche dopo la condanna inflitta all’opera di Don Lorenzo Milani. Il vero equivoco consiste nel fatto d’aver lasciato abituare anche i più autorevoli palati al sapore di questo polpettone.

 

 

ARCIVESCOVI E PRETI IN TOSCANA

di Piero Capello

Il Borghese, Milano, 23 dicembre 1965, pagg. 890-893

Firenze, dicembre

Ogni giorno alle undici c’è una corriera che parte per Vicchio. Vi salgono contadini che tornano a casa, massaie scese in città per le compere, ragazzi delle scuole residenti in provincia. La strada corre attraverso il Mugello, raggiunge paesi inerpicati sui colli. Da Vicchio a Barbiana cede il posto a un tratturo con buche profonde dove l’acqua ristagna. "Lei va a Barbiana?" aveva chiesto l’autista staccando il biglietto. "Sì, devo andare a Barbiana." "Allora le ci vogliono gambe. Lassù la corriera non sale." Poi aveva voluto sapere di più: mi aveva chiesto se andavo dal prete: "quel matto che se la prende con tutti". Risposi ch’era proprio così: cercavo don Lorenzo Milani. L’uomo aveva scosso la testa, non sembrava approvare.

Don Lorenzo Milani l’ho trovato dopo un’ora.

Barbiana è un’astrazione geografica sperduta sui colli: non conta che tre o quattro case sbilenche e una chiesa. Addossata alla chiesa è la casa del parroco. Il prete se ne stava seduto in mezzo ai ragazzi, nella stanza che gli serve come aula scolastica. Non c’è stato che un colloquio appena abbozzato.

Don Milani non ama ricevere ospiti e se qualcuno si spinge fin lassù, dove la sua presunzione si esercita a trasformare le leggi in strumenti di civile tirannide ad uso e consumo di pochi ragazzi sprovveduti e caparbi, egli non si alza dal tavolo, non invita gli allievi a far posto, non accenna a nessun gesto cortese. Gli occhi sbarrati, le labbra serrate, è chiaro che egli interpreta davanti a se stesso la parte del "profeta" e del martire, il ruolo di chi intende "testimoniare", magari a dispetto, la propria fede nei "segni dei tempi". Così s’è comportato con me; così s’è comportato anche con chi, come il Vescovo coadiutore di Firenze, monsignor Bianchi, da lui s’era recato non già per un incontro dettato da curiosità e interessi professionali ma per invitarlo a più moderati pensieri.

La storia del Vescovo mandato dal prete ribelle per indurlo, come si dice, a più miti consigli, e costretto a tornarsene via senza aver potuto pronunciare parola, ha fatto il giro della Diocesi e ha suscitato un vespaio negli ambienti politici. C’è chi si spinge a dichiarare, sulla base di informazioni sicure, che l’Arcivescovo Florit abbia pianto d’amarezza e di umiliato sconforto. Don Lorenzo Milani costituisce a Firenze uno di quei "casi" che soltanto il rispetto per la veste talare impedisce di definire "clinici" sotto ogni punto di vista.

Accusato di vilipendio delle Forze Armate per aver sostenuto la liceità dell’obiezione di coscienza, in polemica con un comunicato diffuso dai cappellani militari, egli ha spedito ai giudici che a Roma dovranno valutare il suo atteggiamento, una lunga lettera di "chiarimenti" e "interpretazioni": un documento, fra i molti del tempo nostro, in cui l’ingenuità più incredibile sembra dar mano alla malafede e lo spirito pastorale allearsi agli slogans del più vieto marxismo. Per don Milani non esiste un concetto che stia saldo sulle gambe della raggiunta maturità filosofica o storica, ma tutto è improbabile e vago, discutibile e legato ai contingenti interessi della "classe dominante".

Ecumenico e provinciale, cattolico e filocinese, ministro di Dio e teologo dell’abbraccio universale in nome del pacifismo e del disarmo ideologico, per lui la Patria non è che l’incarnazione pagana di un Moloch che divora i suoi figli, una "superstruttura" del capitalismo più retrivo; e la guerra, almeno quand’è combattuta dall’Italia, è un atto di aggressione ingiustificato e criminoso anche se, per avventura, imposto dalle leggi votate da un Parlamento liberamente eletto. Al lume di tali considerazioni, ovviamente, anche l’obbligo del servizio di leva non è che l’esercizio di un arbitrio sicché opporvisi costituisce titolo di nobiltà civile e morale.

In un Paese dove le percentuali elettorale e i suffragi alla sinistra inducono a pensare che lo Stato addestri, a spese del contribuente, un comunista ogni quattro cittadini di leva, l’idea che la coscrizione obbligatoria abbia fatto il suo tempo non è del tutto campata in aria. E noi saremmo i primi a considerarla superata e a preferirle l’avvento di un esercito di mestiere se i medesimi scrupoli fossero nutriti anche dai preti "impegnati" come Milani e Balducci.

La realtà è diversa giacché sia l’uno che l’altro di questi religiosi, insieme con quelli non altrettanto noti che ne seguono le peste, conducono una battaglia del tutto opposta, destinata a portarci dritto dritto nelle braccia del comunismo. Don Milani aveva allegato alla sua lettera ai giudici un certificato medico in cui si dichiaravano "gravi" le sue condizioni di salute, e il processo, già fissato per la metà di ottobre, venne infatti differito al quattordici dicembre.

Per rendergli più facile la difesa, per offrirgli la possibilità di "seppellire" la Corte sotto mucchi di documenti e di interpretazioni giuridiche a lui favorevoli, i comunisti hanno raccolto più di tre milioni. Molto di più di quanto non abbia fatto la Santa Sede, per la quale don Milani è pur sempre un "unto di Dio". Se le informazioni in nostro possesso sono esatte, la Segreteria di Stato s’è limitata infatti a spedirgli, con un assegno incassato a Vicchio, la modica cifra di duecentomila lire. Don Milani non ha respinto le offerte. In omaggio all’aureo detto pecunia non olet, PCI e Vaticano sono stati così accomunati anche da un punto di vista finanziario. A ben guardare c’è nel modesto episodio... [manca la seconda pagina dell’articolo. N.d.MM]

IL FINTO TONTO E LA SANTA VIOLENZA

Risposta a don Lorenzo Milani

di Antonio Pugliese

Roma, Napoli, venerdì 3 dicembre 1965, pag. 9

Il 7 novembre, in una delle "lettere" domenicali indirizzate a Peppino Marotta, scrissi di don Lorenzo Milani, parroco di Barbiana, deferito all’autorità giudiziaria per apologia di reato. Il Milani, infatti, aveva esaltato il comportamento degli "obiettori di coscienza" ed aveva inveito contro un gruppo di cappellani militari i quali avevano condannato pubblicamente coloro i quali tentano di sottrarsi, sotto lo specioso motivo dell’"obiezione di coscienza", ai propri doveri verso la Patria e verso la società.

Nella rubrica "Lettere al "Roma"", il generale nel Ruolo d’Onore Guido Bauer, più volte decorato, mutilato, vecchio africanista, riprendeva i motivi del mio articolo e si associava alla mia deplorazione. Ora don Lorenzo Milani ha indirizzato al generale Bauer la seguente lettera:

"Egregio generale,

lei mi ha dato di ipocrita, pazzo, ignorante, mascalzone, disfattista, traditore e lo ha fatto su un giornale. Se io la denunciassi lei andrebbe dentro per diffamazione e così libererei dei poveri soldati dal cattivo esempio di un ufficiale che ignora le leggi della Patria e il rispetto che deve ai suoi concittadini che sono tutti suoi uguali davanti alla legge e non inferiori.

Inferiori sono quelli che in discussione, quando non hanno argomenti, credono di poterli sostituire con ingiurie (come ha fatto lei), o con ingiurie e minacce (come ha fatto il signor Pugliese). Io invece, per vostra fortuna, non uso difendere le mie idee e la mia onorabilità con le ingiurie e tanto meno con le denunce. Stia dunque tranquillo perché non porterò in tribunale né lei né il signor Pugliese, né il direttore del giornale che vi ha ospitati.

Quello che invece non posso rimediare è l’effetto che ha fatto la lettura della sua lettera sui miei ragazzi. I ragazzi sono portati a generalizzare e mi è difficile ora convincerli che non tutti i generali sono come lei".

Il generale Bauer, in riscontro, ha indirizzato a don Milani la seguente lettera:

"A riscontro della sua lettera [... manca una parte dell’articolo. NdMM]"

[...] è pericolosa non solo a se stessa, ma anche agli altri, e quindi, proprio come i pazzi, dev’essere messa al bando dalla società nella quale pretende di diffondere i bacilli della sua pazzia. Nel caso specifico, della sua vigliaccheria. Da che mondo è mondo, infatti, ogni consorzio umano ha edificato le sue fortune su tre pilastri: sulla Famiglia, sulla Religione, sulla Patria. Questa concezione e questa prassi hanno resistito nei secoli a tutti gli attacchi. Nella stessa Russia -che pure vanta di essere la patria dell’internazionalismo- nel momento del maggior pericolo Stalin fece appello all’amor di patria perché i russi resistessero. Quando questa concezione e questa prassi sono venute meno, quando cioè è crollato qualcuno di questi pilastri, le nazioni sono crollate. Ora, nel concetto della Patria, c’è anche il diritto-dovere del cittadino verso la società (che s’invera nella Patria) di adempiere, con il servizio militare in pace e in guerra, a determinati obblighi, così come il concetto di religione implica per il prete il diritto-dovere di adempiere, con l’esempio e con l’esercizio, a determinati obblighi. Non è fatto opinabile, ma lapalissiano: se si viene meno a questi principi si finisce per discutere non solo della Patria ma anche della Religione.

Sono, questi, concetti elementari, alla portata di tutti, accettati universalmente dagli stati totalitari. C’è da chiedersi: come e perché questo don Milani -che se non è un’aquila non è certo nemmeno un animale da cortile- si schiera contro questi principi mettendo in discussione non solo le componenti della Patria ma addirittura, per analogia, quelle della Religione? Perché questo don Milani che appartiene all’organizzazione più totalitaria ed assolutista che la storia abbia mai avuto (il Vaticano), vuole ammettere, giustificare anzi in un settore della vita sociale quelle obiezioni che la sua Religione e la sua Gerarchia non consentono nel loro campo? Perché questo don Milani si affianca nella sua azione proprio a coloro i quali vogliono distruggere i pilastri fondamentali della vita dei popoli, salvo a restaurarli in maniera ancora più drastica, con disciplina ancora più ferrea, con sistemi ancora più rigidi quando fossero riusciti a sostituirsi ai governi contro i quali manovrano? Qui, nella risposta a questi interrogativi, ritornano le affermazioni del mio articolo precedente. O è un pazzo o un esibizionista o un uomo in malafede, tanto più pericoloso in quanto si serve di una divisa -quella del prete- e si fa scudo di innocenti (i ragazzi in nome dei quali pretende di parlare). Pazzo, esibizionista o in malafede che sia, il dialogo, arrivati a questo punto, non è più possibile. Non si può parlare di poesia e sentirsi rispondere di gastronomia: né si può consentire una speculazione che può -alle lunghe- arrecare danni gravissimi proprio nei giovani che rappresentano il più grande patrimonio della nazione. Arrivati a questo punto si capisce come in certi casi anche la violenza trovi una sua giustificazione. Che essa poi consista in una camicia di forza, nell’isolamento o nei pedatoni nel sedere la sostanza non cambia: con il verme che cerca di guastargli il raccolto il contadino non può fare complimenti, così come il soldato che toglie i pidocchi dal farsetto a maglia non può carezzare lo schifoso insetto che sta per uccidere. La società ha il diritto ed anche il dovere di difendersi. Le leggi, per quanto dure, vanno rispettate. Discuterle, significherebbe minare alla base l’ordinamento della società. Proprio quello che pretende di fare questo don Lorenzo Milani.