Capitolo I°

I testimoni diretti

Quasi un dovuto incipit al volume, l’articolo di Enzo Enriques Agnoletti ricostruisce l’immagine di un Lorenzo adolescente ma già "dominato, quasi ossessionato" dai temi della giustizia e del diritto alla vita.

Da questi temi, né l’uomo né il prete Milani si libereranno mai: Lorenzo non sarà mai "un prete come gli altri": conciliare prima del Concilio, naturalmente antifascista ed anticonformista, non potrà che risultare sempre scomodo, e la sua scomparsa farà emettere "chissà quanti sospiri di sollievo, anche se addolorati ed affettuosi"; per altri, invece, "don Lorenzo rappresenta un morto irrequieto, che non lascia vivere in pace", come scrive Gigi Ghirotti.

Sospiri di sollievo, ma anche ritratti edulcorati, "manipolazioni e storpiature", come rileva padre David Maria Turoldo, che si ribella al tentativo palese di annettersi don Lorenzo, di farne un "santino da prima comunione", un "prete obbedientissimo".

Ma obbedientissimo a cosa? La risposta di Turoldo è chiara, allorché rileva nel suo amico don Milani un senso della "giustizia al grado di furore", capace di divorarne la vita più della leucemia.

Di quale giustizia si tratti, se ne ritrova traccia nello scritto di Pietro Ingrao, il quale riconosce in quel prete -che pure gli rivolge una "contestazione amara" a proposito del rapporto tra il suo partito, il PCI, e gli operai e i contadini- una "coscienza robusta e drammatica dell’oppressione di classe".

Un prete che come propria ragione di lotta portava una richiesta di libertà "di sostanza" per l’operaio e per il contadino: che a questo intimo criterio (la "rottura dell’oppressione") ispirava la sua battaglia, ossia "atti e parole e scelte".

Da questa ragione era guidato, e questo comportava di rinnegare i vecchi schemi borghesi, finanche al rifiuto del momento estetico, come limpidamente rileva Marco Ramat, non ricordando di aver mai visto Milani alzare gli occhi "sia pure per un momento" sul suggestivo panorama, oppure "guardare una pianta o un fiore", perché "mai un contadino ha guardato il cielo o un bosco perché sono belli".

Eppure, ad un rinnegamento deciso, perfino ostentato, a quel "classismo esasperato, senza remissione per chi è nato borghese" ("Noi coi borghesi facciamo così, li adoperiamo e poi li buttiamo via come stracci"), non corrispondeva, non poteva corrispondere, una negazione vera di se stesso, del proprio passato, del proprio sangue, della propria cultura. E questo -è ancora l’amico Ramat a testimoniarlo- faceva di don Lorenzo una persona "intimamente contrastata".

Un altro aspetto rilevante troviamo nella testimonianza di Ramat: il pudore "fortissimo" di Milani a rivelarsi come individuo, a cui faceva da contrappunto "il vivere ogni giornata con l’impegno e la tensione morale che fosse quella buona per il segnale di battaglia", ben sapendo invece come essa sarebbe stata uguale alle altre, a tante altre, passate ed anche a venire.

Impegno, tensione morale; ed, assieme, accettazione del posto in cui è dato di vivere, in cui mettersi "a lavorare senza pensare più se sia grande o piccolo".

E’ questo, per Ramat, la lezione più grande di Milani, quella che di Barbiana ha fatto "un posto immenso".

 

 

MORTE DI UN SANTO

di Enzo Enriques Agnoletti

Il Ponte, Firenze, 30 giugno 1967, pagg. 699-700

 

Così, pochi giorni fa, immaginavo la morte di un santo. Le sole lacrime, nel salutarlo, lui che poteva appena mormorare qualche parola, erano le mie, di un laico. Intorno a lui i fedeli, e suoi fedeli, uomini, donne e ragazzi, tutti presi, come per tanti anni di vita passata vicino a lui, nelle cure giornaliere, nei lavori umili, o meno umili, nella diffusione delle idee, nel riferire i passi compiuti e, ora, le recensioni al libro che stava per uscire; non era tempo né luogo per lasciarsi prendere dalle emozioni, dalle cose non operose, non virili. E l’ultima raccomandazione, fattami dire da chi, accanto a lui, aveva voce per lui: scrivi che il libro l’hanno fatto i ragazzi, non si dica ancora una volta che è stato don Milani a scriverlo perché non è vero. Sapeva di aver creato qualche cosa che aveva una sua vita diversa dalla sua e questo, sul punto di morire, soprattutto lo interessava. Noi sappiamo che i ragazzi di don Milani, quelli di Sesto come quelli di Barbiana, vanno poi per la loro strada, coscienti di aver avuto un’origine particolare, di varie idee e partiti, ma tutti con questa profonda fede nello spirito che guida liberamente, e sappiamo che il motivo talvolta autoritario della soverchiante presenza di don Milani non li ha soffocati.

Nell’andarmene, nel lasciare quella conclusa comunità di credenti, nel rendermi ancora una volta conto di quanto cementi, unisca, la sensazione di respirare la stessa aria, di intendersi con pochi cenni, di sentirsi trasportati insieme da una stessa barca, e di trovare in questa comunione una felicità pacata, ma profonda, a me veniva in mente il ragazzo, di tredici anni, con cui avevo fatto lunghe passeggiate nelle Dolomiti subito prima della guerra. Allora Lorenzo Milani stava a Milano, frequentava palestre e circoli operai, era più o meno socialista, dominato quasi ossessionato, dal tema della giustizia e del diritto alla vita. L’uccisione di una vipera gli suscitò un grave problema morale, tutto preso com’era dalla ricerca della sua strada. Mi stupì, ma non troppo, quando ebbi notizia della sua decisione di farsi prete, ma non mi stupì di sapere poco dopo che don Lorenzo non era un prete come gli altri. Questo non gli sarebbe mai riuscito. La dedizione completa, la sete di assoluto e di giustizia, e nello stesso tempo il profondo spirito critico, e la naturale coscienza di antifascismo e di anticonformismo, non potevano non costringerlo, a prezzo anche di disapprovazione e di contrasti, a seguire una sua via. Santo, ho detto da principio, io che non mi intendo di miracoli e, come certi santi, umano e un po’ terribile. Suscitatore di devozioni e di impegni che si allargavano in circoli concentrici intorno a lui e che arrivavano molto lontano. Prete conciliare già prima del Concilio, e quindi che univa un po’ lo spirito profetico con la ragione, con la critica, con il lavoro giorno per giorno, minuto per minuto, senza soste, né per sé né per i suoi ragazzi. Aveva creato la sua Regola, nata da un modo nuovo di concepire e l’insegnamento e i rapporti sociali e politici e i rapporti con le gerarchie. Prete scomodo quindi, e chissà quanti sospiri di sollievo, anche se addolorati e affettuosi, la sua scomparsa potrà fare emettere; ma a noi resta in mente quel viso ancora di ragazzo, fresco ed ingenuo, pieno di tenerezza, dominata dalla coscienza di un lavoro e di un destino comuni. Per questo pensiamo che sia vissuto e morto bene, pur dopo sofferenze tremende; per questo i laici come noi, che non se ne intendono, pensando a lui hanno in mente la vita e la morte dei santi.

 

L’ANTISCUOLA DI BARBIANA

1. Uno scontro

di Gigi Ghirotti

Comunità, Milano, n° 146-147, settembre-ottobre 1967, pagg. 23-25

Mi arriva da Barbiana, nel Mugello, una cartolina illustrata. Dice: "vorremmo scrivere un libro sul nostro Priore (don Lorenzo Milani, N.d.R.) e stiamo raccogliendo materiale utile. Se ha lettere, altri scritti suoi o qualcosa da raccontarci, ci potrà essere di molto aiuto. Per piacere, racconti evitando giudizi. Grazie e saluti dalla scuola di Barbiana".

Una sola volta incontrai don Lorenzo Milani. Il ricordo di quell’incontro mi ha sempre perseguitato, e ancor oggi quando penso al Priore di Barbiana e all’accoglienza che mi riservò in quell’unica occasione che ebbi di avvicinarlo non so trattenere un moto di dispetto. Il dispetto di non averlo capito, o di non essermi fatto capire, e di avere, comunque, perduto l’opportunità di afferrare un po’ meglio il filo d’un discorso che avrebbe potuto condurci lontano, nel distacco o nell’affetto.

Arrivammo, il collega Ferrante Azzali (del "Resto del Carlino") ed io, nel piccolo borgo di Barbiana, attratti dalla fama di questo prete in odore di ribelle. Don Milani non ci aspettava, ma il nome di un amico comune ci spalancò subito le porte della sua scuola, e senza tanti complimenti ci trovammo seduti in uno stanzone semibuio, cinque o sei panche di legno ridosso alle pareti, qualche tavolo, don Milani seduto sulla sdraio vicino all’uscio, e intorno tutta una scolaresca di bambini, ragazzi, bambine, giovinette, che ci guardavano con gli occhi lampeggianti di curiosità. Don Milani ci presentò agli scolari: "Ecco", disse, "vedete ragazzi?, questi due signori sono due giornalisti, cioè sono pagati per dire bugie sui giornali".

La presi dal lato scherzoso. "Non sempre bugie, don Lorenzo, o almeno noi raccontiamo delle cose che ci vengono raccontate. Se poi sono bugie, nemmeno noi lo sappiamo". Don Milani mi ributtò indietro il pallone con veemenza: lui no, non la prendeva per il lato scherzoso: "Guardi che ho i documenti". "Che documenti ha, don Milani?". "Ho una lettera autografa, me l’ha spedita X Y (e disse il nome d’un giornalista fra i più famosi dei nostri tempi), in cui si dice che i giornalisti sono dei venduti al miglior offerente". "Quel nostro collega", ribattei, "parlerà del suo caso personale. Quanto a noi due non siamo né comprati né venduti. O meglio, se lo siamo noi, lo sono tutti coloro che lavorano sotto padrone in Italia e in tutto il mondo. Dipendiamo dai nostri giornali, i nostri giornali dipendono da chi possiede la proprietà della testata. Non ci son misteri". "Benissimo, abbiamo capito: i giornalisti scrivono quello che vogliono i loro padroni", concluse don Milani. Mi sentivo pigliato al laccio, denudato, esposto al ludibrio di tutti quei ragazzi, senza nemmeno la possibilità di reagire con un discorso filato e responsabile intorno ai diritti della libertà di stampa nel quadro dei diritti della proprietà privata.

"Ecco la ragione", proseguiva implacabile don Milani, "per cui nei giornali non si riesce mai a capire quel ch’è successo davvero nel mondo. Sono settimane, per esempio, che sto leggendo tutte le notizie che vengono da Saigon, su tutti i giornali, e non ne trovo nemmeno uno che mi dica la verità". Venivo da Firenze, ricordo, e avevo appena visitato l’archivio di stato nel palazzo degli Uffizi. Ribattei: "Don Milani, vengo proprio adesso dagli Uffizi. Ho visto molte casse, che sono laggiù, accatastate nelle cantine senza che nessuno le abbia mai ancora aperte. Ho chiesto ad un inserviente: "E in quella cassa che cosa c’è". "Il materiale sul tumulto dei Ciompi", mi ha risposto. Come vede, sono passati secoli dal tumulto dei Ciompi e non sappiamo ancora esattamente come sia andata, quella volta. Come possiamo pretendere di sapere la verità sul colpo di stato di Saigon, che ha avuto luogo un paio di settimane fa?".

Mi parve d’aver conseguito un certo successo, ma don Milani mi guardava irrequieto: non aveva ancora finito di smontarmi, bullone per bullone, davanti alla sua scolaresca. Si parlò della città di Torino, e don Milani sostenne che lavorava a vuoto, perché "gli automobili a cosa servono?" mi domandò brutalmente. A tutto ero preparato a rispondere, fuorché a una domanda del genere. Rimasi imbarazzato, ma questa volta venne lui a togliermi d’impaccio. "Be’, a pensarci bene, le automobili servono se un sindacalista, per esempio, deve andare in città a discutere sul contratto". Tra i centomila impieghi d’un’automobile, confesso che quello cui accennava don Milani non m’era mai venuto in mente. Mi parlò di Barbiana con orgoglio: disse che alcuni dei suoi ragazzi erano stati mandati a Oxford. "Oh, a fare i lavapiatti, sa?, non creda...". Non so a qual proposito, mi parlò di vescovi e cardinali, di cui aveva un concetto molto basso, e infine ritornò alla carica domandandomi qual fosse a mio giudizio il giornale che scriveva la verità.

Ancora una volta rimasi sconcertato, e stavolta replicai con durezza: dissi che il giornale di cui mi parlava non esisteva; che in Russia s’era tentato di farne uno, si chiamava "La Pravda", usciva ogni sera recando nelle sue pagine tutta la verità, nient’altro che la verità, al modico prezzo di pochi centesimi, in edicola. Conclusi che da noi la verità aveva aspetti molteplici: nessuno la possedeva, ma su ogni giornale, a saperla cercare, ce n’era un frammento, e che solo il lettore, nella sua libera scelta e nell’unicità della sua coscienza aveva il potere di ricostruirla e la responsabilità di prestarvi fede. E questo, dissi, era il difficile compito di un cittadino in un paese democratico che non prende in edicola le sue verità.

Ricordo di aver discusso con uno dei suoi scolari sul concetto di "utile". Domandai: "Ma che cosa è utile, e che cosa inutile, nel mondo?". Mi rispose: "Ecco, vede, per esempio lei porta la cravatta. A che cosa serve? A nulla, perciò è inutile". "E don Milani", risposi, "porta la veste lunga e nera. A che cosa serve la veste lunga e nera?". Ho il rimorso di quest’insulso quesito. Il ragazzo non mi rispose, la visita a Barbiana era finita, di don Milani mi rimase un’impressione contrastante: da un lato scorgevo il suo limite in un acre e immisericordioso sentimento di protesta contro il mondo che lo aveva allontanato da sé, e confinato a vivere lassù. Dall’altro, per tanti preti che avevano insegnato e continuano a insegnare ipocrisia, l’obbedienza idiota a tutto e a tutti, il cristianesimo come rassegnazione bovina, il cattolicesimo come pigra ripetizione di giaculatorie e di luoghi comuni, mi sembrava che fosse degno di ammirazione un prete che scioglieva tutto questo groviglio di compromessi con la società. Mi parve giusto che un maestro, per tante centinaia di migliaia di maestri che salgono in cattedra a rigirare il disco delle nozioni apprese, fosse disceso in quell’angolo di Mugello a rivelare che la scuola è un’altra cosa, e tutta diversa da quella che conosciamo, riveriamo, paghiamo e pretendiamo, ancora, che sia diffusa e praticata ulteriormente. La scuola come palestra comune per la comune ricerca: il pulpito e l’altare come punti di riferimento della comunità per i suoi rendiconti, per le ispirazioni necessarie al vivere in questa terra pur proiettando la propria fatica in una dimensione più lontana e non raggiungibile allo sguardo umano. Queste mi sembrano le lezioni indimenticabili di don Milani, il suo lascito alla società ecclesiastica di cui fa parte, alla scuola italiana sulla quale innestò un’esperienza importante e degna di altissimo rispetto, alla società democratica tutta la quale deve riconoscenza e attenzione a tutti coloro che ne sperimentano dal vivo la debolezza, e che la onorano di ruvida critica e pungente rampogna.

I ragazzi di Barbiana mi chiedono adesso di "raccontare fatti evitando giudizi", e qui riconosco il segno di don Milani, quel suo bisogno di verità semplici e aperte, quella sua incapacità di ammettere che il mondo semplice non è, e la verità non è merce da edicola e forse nemmeno patrimonio di questa terra. Per me non esiste distinzione tra fatti e giudizi e non posso, raccontando i fatti esimermi dal giudicarli, né esprimendo un giudizio mancare di narrare il fatto che di quel giudizio rappresenta lo stelo. Debbo dir grazie a don Milani per quell’accoglienza nella sua scuola: siamo abituati alle blandizie, e mi trattò con severità probabilmente meritata e certamente benefica ad umiliare, a costringere alla riflessione su se stessi e sulla propria posizione nella società. Nella mia memoria, don Lorenzo rappresenta un morto irrequieto, che non lascia vivere in pace. Me lo porto dietro così, come un aculeo, un dubbio grave della coscienza: sono questi, dopotutto, i morti che non muoiono mai.

 

IMMAGINI DI DON MILANI

di Marco Ramat

Il Ponte, Firenze, 3 dicembre 1967, pagg. 1628-1634

 

La prima volta che incontrai don Milani fu nell'inverno 1959. Dopo aver letto le sue Esperienze pastorali seppi che stava a Barbiana, in comune di Vicchio: mio "suddito", dunque, perché ero pretore a Borgo San Lorenzo. Andai da lui con l'intenzione e la prospettiva di scambiarci confessioni simili; mi era infatti sembrato che la sua posizione nella chiesa fosse per vari aspetti uguale a quella mia nella magistratura; e mi proponevo e supponevo appunto, mentre salivo con la mia vecchia Ardea la mulattiera che portava a Barbiana dal fondo valle della Sieve, di avere un incontro da uomo a uomo e -soprattutto- a quattr'occhi.

Le cose si svolsero del tutto diversamente. Appena entrato nella cucina di una casa colonica (in quell'occasione don Milani e i suoi ragazzi non erano nella canonica, non ricordo per qual motivo) ebbi appena il tempo di presentarmi e subito dopo, troncato ogni preambolo, fui da lui invitato a parlare, di fronte a tutti i ragazzi della pretura; e si fece notte parlando della giustizia e della legge e di tutto; quando venni via ero piuttosto frastornato, perché mi pareva di non essere riuscito a parlare con lui, di non avere ascoltato da lui quel che pensavo avrei ascoltato. Ero ammirato di tante cose che avevo visto, ma in fondo anche ero un po' urtato dell'impressione che don Milani si fosse rifiutato a me come individuo, e che avesse rifiutato me come individuo.

 

Direi che questa sia stata una delle principali lezioni di don Milani. Aveva le stimmate dell'intellettuale vero, dell'intellettuale serio; la sua educazione, la sua vocazione, il libro che aveva scritto da poco, la vita che faceva, lo stile personalissimo in ogni tratto, tutto cooperava a far di lui un tipo, un esemplare raro, quasi una curiosità civico-naturale (per molti, purtroppo, don Milani non era altro che questa curiosità); ma forse proprio perché si rendeva conto di ciò, don Milani ostentava la massima indifferenza per la persona individuale che -a sentirlo dire- faceva contare meno che niente.

Questo era il primo e grave prezzo da pagare per chi voleva conoscerlo; l'accettare di andate lassù a trovarlo (ma lui diceva sempre "a trovarci") per servire la sua scuola; tutti i problemi individuali dovevano rimanere in pianura; quando mi ero inerpicato lassù io non dovevo più esistere, apparentemente, se non nella misura in cui servivo a Barbiana; nel giro degli anni in cui più frequentemente andavo lassù, mi capitava a volte di essere aggredito da un questionario giuridico elaborato dalla scuola di Barbiana nei giorni precedenti, e mi toccava rispondere a tutte le domande e affrontare l[e] più disparate questioni: dallo sciopero al diritto di caccia, dai ricorsi contro i sindaci perché non aprivano scuole alla liceità della violenza-non violenta...

Una volta, e fu forse la prima che lo vidi fuori di Barbiana (nella macchina di un amico, avvoltolato in una coperta perché si era in pieno inverno e faceva un gran freddo, a Borgo San Lorenzo sotto la pretura), mentre lo salutavo e gli chiedevo come stava, lui come al solito cambiò subito tono e discorso: mi chiese di mandargli su a Barbiana un mio amico che sapeva molte cose sulla Spagna; e disse: "Noi coi borghesi facciamo così, li adoperiamo e poi li buttiamo via come stracci...": contento forse, in cuor suo, d'aver preventivamente mortificato, nell’enunciazione di una regola generale della "sua" comunità, me e questo mio amico; che non pensasse il mio amico di essere ringraziato, né io di aver fatto un favore a loro; ed io del resto, che ormai lo conoscevo abbastanza, feci finta di stare al gioco e non volli dargli la soddisfazione di manifestargli che ero rimasto male. Accettavo il ruolo e il nome di borghese, anche se temperato dal titolo di amico, che la mia funzione e soprattutto le mie abitudini di vita automaticamente comportavano; ma poi, forse perché gli "servivo" spesso, né lui né quelli di Barbiana mi buttarono mai via come uno straccio.

 

Per me don Milani non è mai stato quella persona semplice e lineare quale a molti è apparso; poiché non ho mai conosciuto nessuno capace di rinnegare per davvero se stesso, il proprio passato, il proprio sangue, la propria cultura, credo fermamente che neanche Lorenzo Milani ci sia mai riuscito; per questo, e considerando come invece nell'azione esterna (la sola per la quale voleva essere considerato e giudicato) egli fosse invece ostentatamente deciso in questo rinnegamento, penso a lui come alla persona più intimamente contrastata che abbia mai conosciuto.

Chi è stato a Barbiana sa che di lì, proprio dalla pergola della canonica dove col tempo buono sedeva in permanenza la scuola, si vede uno dei più bei panorami toscani: tutta la valle centrale della Sieve sullo sfondo amplissimo dell'Appennino tosco-romagnolo, e incombente, dall'altro lato, l'altura selvatica di Monte Giovi; eppure non mi è mai successo di veder don Milani alzare gli occhi sia pure per un momento verso quel panorama, fatto apposta per riprender fiato; mai ho visto lui o uno dei suoi allievi guardare una pianta o un fiore: la pergola a fianco della canonica era oggetto di cura attentissima non perché fosse bella, ma perché durante l'estate doveva fare ombra il più possibile.

Anche questo rifiuto del momento estetico -e lo stesso si può dire del senso dell'umorismo- faceva parte del rinnegamento da parte sua dei vecchi schemi borghesi e diventava materia e simbolo dalla sua nuova fede sociale: mai un contadino ha guardato il cielo o un bosco perché sono belli, e don Milani non voleva essere da meno. E poi, quella era la montagna: non tanto la montagna in cui era stato esiliato lui, quanto quella dalla quale il suo popolo depresso doveva andarsene, per lottare ad armi pari, per imparare come si combattono i borghesi, per non darle altri figli incivili.

Don Milani è stato mio "suddito" per otto anni, dal '58 al '66 quando lasciai la pretura di Borgo San Lorenzo. I nostri rapporti non furono mai strettissimi, ma non perché fosse d'ostacolo la mia professione: anzi quest'ultima non soltanto era l'occasione più frequente per la quale io capitavo lassù, ma anche mi diede modo di constatare come l'educazione che lui dava era improntata al massimo rispetto della legge. Nella famosa lettera ai cappellani militari ("...le nostre armi sono meno sanguinose, perché sono lo sciopero e il voto") e nella difesa scritta per il processo per apologia di reato che ne seguì, don Milani ha lasciato un catechismo perfetto di come si debba intendere la legge. Se tanti suoi comportamenti davano l'impressione di essere condizionati a Barbiana, a quelle case cadenti e a quei sentieri (e a volte era per davvero un condizionamento ferreo, questo del luogo), il suo atteggiamento di fronte alla legge era esemplare per Barbiana e per fuori Barbiana: non il rispetto formale e passivo (e questo, parlando di lui, è ovvio), ma neanche il disprezzo precostituito programmatico che molti per comodità gli attribuivano, scambiandolo per un anarchico; c'era anzi nel suo insegnamento -come componente essenziale- la volontà di impegnare e di impegnarsi nell’adoperare tutti gli strumenti legali esistenti per trasformare la società.

In questo ci trovammo assolutamente concordi, sempre. Ricordo che nel 1961 fu proprio don Milani a pungolarmi e a convincermi definitivamente a rimettere alla Corte costituzionale la questione di legittimità della conversione delle pene pecuniarie in detentive in caso d’insolvibilità del condannato; l'insolvibile era un immigrato meridionale dei pressi di Barbiana. Io ero molto scettico sulla soluzione della questione, che difatti venne poi risolta negativamente; ma fui contento di mettermi a disposizione della causa, indubbiamente buona, e di fare questa prova per don Milani; e del resto la causa non fu del tutto persa perché l’aver portato la questione alla Corte costituzionale servì a far approvare più in fretta dal parlamento la legge di conguaglio a 5.000 lire-giorno, mentre prima era 1.000 lire-giorno. E fu dimostrato così che ad adoperare gli strumenti legali a disposizione, le cause dei poveri ci possono guadagnare.

L'ultima volta che andai a trovare don Milani a Barbiana fu proprio poco dopo la pubblicazione della sua lettera ai cappellani militari; ancora non si sapeva del processo che sarebbe stato instaurato contro di lui, ma intanto gli erano arrivate a decine lettere anonime minatorie; il momento sembrava di particolare tensione, e il mio compito era quella volta -dietro pressione di amici- di convincerlo a presentare denuncia formale per le minacce anonime. Da principio lui era restio, ma riuscii a convincerlo facendo leva sulla necessità di dare l’esempio di come ci si deve servire della legge (anche se in realtà quel che premeva era che si sapesse in giro della denunzia ai C.C., perché la posizione isolata e indifesa di Barbiana poteva invogliare qualcuno di quei coraggiosi corrispondenti anonimi a fare una spedizione punitiva contro il prete disfattista).

La denunzia dunque venne presentata da don Lorenzo alla stazione dei C.C. di Vicchio, e vi furono allegate alcune delle più significative lettere minatorie; i carabinieri di Vicchio fecero le opportune indagini e dopo qualche tempo mi arrivò in pretura il rapporto.

Una delle lettere minatorie allegate alla denunzia era firmata "Cecco Angiolieri" e portava, come indirizzo del mittente un numero civico di una vecchissima strada del centro di Firenze. Diceva il rapporto pressappoco così: "Dalle varie lettere allegate alla denunzia dal sacerdote in oggetto, soltanto una è firmata, ma il firmatario Cecco Angiolieri è sconosciuto agli atti di questa Stazione nonostante tutte le ricerche esperite; la Stazione di Firenze Principale, nella cui giurisdizione è compresa la Via dell'Anguillara indicata come residenza dal mittente, è pregata di svolgere tutte le opportune indagini atte all’identificazione e al rintraccio del predetto Angiolieri, riferendone direttamente alla Pretura in indirizzo e, per conoscenza, a questo Comando".

Non so se don Milani si sia mai accorto di una particolare mia disposizione di spirito che avevo ogni volta che andavo a trovarlo: era -appunto- quella che io intendevo sempre andare a trovare lui, mentre lui poneva come condizione naturale e indiscutibile che chiunque andasse lassù, ci andava per incontrare la scuola di Barbiana; questa condizione io non riuscii mai ad accettarla in pieno, sia perché era una pura finzione scindere la scuola di Barbiana da lui e farne una cosa autonoma, sia perché, come tara inguaribile del mio "borghesismo", portavo sempre dentro di me la curiosità e il desiderio inappagati dell'incontro uomo ad uomo; soltanto fugacemente e per caso (e sempre fuori di Barbiana) ebbi la possibilità di scambiare con lui qualche parola a quattr'occhi, ma sempre col pudore fortissimo, da parte sua, di rivelarsi come individuo.

Ricordo che una volta, e già si sapeva della sua malattia anche se vari anni avrebbero dovuto passare prima della fine, capitò di affrontare questo argomento di fondo, e cioè che lui -secondo me- faceva dei suoi allievi tanti piccoli imitatori di sé; gli dissi che si illudeva se pensava di abituarli sul serio alla discussione e al dialogo, se pensava di farne delle persone autonome. Avevo già notato che i suoi scolari lo imitavano, consapevolmente o no, nella voce, nel periodare secco e breve, nel gesto, in tutto. Mi accorsi che rimase male di queste mie osservazioni (eppure era stato lui, altra volta, a dire che la scuola sua non era "democratica" nella struttura, perché nella vera scuola, e la sua era l'unica vera, il maestro era il monarca assoluto), e si difese dicendo che non poteva permettere che i suoi ragazzi, già così maltrattati dalla sorte classista, potessero avere dei dubbi sulla giustezza delle posizioni impersonate da lui: discussione sì -dunque- gli replicai, ma conclusioni già scontate: le sue.

Questo vederlo restar male della mia critica, e il montare sempre di più dei toni aspri come conseguenza immancabile del progredire della malattia, fu una delle ragioni per cui a poco a poco diradai le visite a Barbiana. Perché don Milani era una persona con cui era impossibile non discutere, ma d'altra parte mi dispiaceva troppo fargli dispiacere col mio non volermi-non potermi piegare: tutti quelli che lo hanno conosciuto e frequentato più di me negli ultimi tempi possono testimoniare di questa sua progressiva intrattabilità nella discussione, e d'altro canto don Lorenzo non era di quelle persone alle quali si potesse dar ragione come ad un bambino.

Ma c'era, debbo confessarlo, anche un'altra ragione per cui, da un certo momento in poi, diradai le mie visite a Barbiana. Era un senso di inferiorità nei suoi confronti, il senso d’inadeguatezza mia rispetto a lui: lui capace di votarsi in maniera totale a quello che riteneva fosse il suo dovere, a quella che riteneva fosse la sua parte; io -invece- pieno di distrazioni e di tiepidezze nello svolgimento del compito nel quale tuttavia credevo (e credo). Ogni volta che, a buio, percorrevo i tornanti sassosi che da Barbiana scendono a fondo valle, portavo con me la sensazione di essere il peggiore degli uomini. Né potevo appagarmi dicendomi che -in fondo- ciascuno fa quello che può, e che tutto quanto uno fa, per quanto mirabile ed eccezionale, lo fa perché lo può fare: pericoloso argomento che livella moralmente ogni persona. E don Lorenzo Milani non poteva essere livellato così.

 

Avrebbe potuto agire diversamente da come agiva, don Milani? Questa domanda me la sono fatta tante volte, tutte le volte che dentro di me sentivo avversione verso alcune sue idee (quel classismo esasperato, senza remissione per chi è nato borghese) e verso 1a sua pedagogia di feroce impegno e di prepotenza personale.

E ogni volta, sempre restando nella relatività che implica la rinunzia ai giudizi perentori e generali, mi sono risposto che era molto facile criticarlo dall'esterno, e dire che magari in questo faceva bene e in quest'altro male, come se il "questo" e il "quest'altro" potessero essere individuati e scissi da parte di chi -comodamente- non abitava a Barbiana, non conosceva le case e la gente di Barbiana.

Questo era il ferreo condizionamento locale, al quale accennavo prima, che determinava in fondo l'azione di don Milani; penso che dentro di sé anche lui si rendesse conto che molte delle sue idee e molto del suo comportamento avevano una buona dose di ossessivo e quindi di eccessivo; ma egli aveva una volta per tutte esaminato e deciso sui pro e sui contro, e concluso che per Barbiana quelle idee e quel comportamento avevano più pro che contro: la scelta, quindi, era già stata fatta in partenza. Per trasformare un gruppo di montanari diseredati e passivi in un’équipe lanciata alla carica alla baionetta contro le trincee nemiche (e non dubito neanch'io dell'esistenza di queste trincee né della necessità di attaccarle alla baionetta), non c'era secondo lui altro mezzo che quello di trasformarli in uomini arcisicuri di se stessi, possibilmente orgogliosi per essersi saputi tirare fuori dalle stalle e dalla sterpaia, certissimi delle proprie certezze; e pazienza se questo andava a scàpito di altre virtù, minori in quel contesto generale, come il gusto del dubbio, l'amore dell'autocritica, l'autonomia personale.

E poi, e più profondamente ancora, una persona che come don Milani aveva lasciato tutto il proprio passato, apertamente rinnegandolo a gran voce, aveva bisogno di abbracciare a questo modo la strada eroica che aveva scelto e che si era imposto per l'avvenire: abbracciarla e abbarbicarvisi così da non poterla lasciare più, da esserne in qualche modo posseduto. Di qui quel poco o quel tanto di irrazionale e di ossessivo, per mantenere costante quella tensione necessaria per tirare avanti, come in una cospirazione perpetua: tutti sappiamo per esperienza che momenti simili durano poco e che, soprattutto, si vivono prevedendone una scadenza prevedibile e conoscibile -quando si verificherà- dal suono di una campana, dallo scoppio di una bomba, dal segnale di una battaglia aperta: altrimenti tutti torniamo al ritmo normale della vita quotidiana. Ma don Milani era riuscito a crearsi questo miracolo psicologico: di vivere ogni giornata con l'impegno e la tensione morale che fosse quella buona per il segnale di battaglia e di sapere al tempo stesso che invece sarebbe stata una giornata uguale a mille ieri e a mille altre che sarebbero seguite.

È difficile dire di che cosa principalmente si sia rimasti debitori verso don Milani: di quest’esempio eroico e continuo di vita? di tante sferzate che ci ha tirato, più o meno centrate ma tutte capaci di farci rimeditare su qualcosa che davamo per acquisito? ("che siete colti, ve lo dite da voi", ad esempio, nell'ultimo libretto Lettera ad una professoressa).

Per quanto mi riguarda personalmente, io gli sono debitore di una cosa particolare. Per molti anni sono stato assillato dalla preoccupazione di "estendermi"; non mi pareva mai abbastanza ampio lo spazio in cui mi muovevo e tutto quanto non riuscivo ad abbracciare nei miei interessi concreti mi sembrava il meglio in cui invece avrei dovuto occuparmi; e più mi rendevo conto che questa tendenza era la migliore per combinare meno, più ne subivo la tentazione.

Non ricordo quale fu l'occasione in cui capitò di parlare di questo, su da don Milani. Forse fu una volta che incontrai a Barbiana alcuni "non violenti" venuti da lontano per chiedere a don Milani di scrivere un articolo sull'obbiezione di coscienza per un loro giornale; don Milani rifiutò: "Mi dispiace, ma non mi riesce a scrivere così a comando; io riesco a scrivere soltanto quando "mi scappa"". Più tardi io gli domandai se credeva di far bene a darsi tutto e soltanto a Barbiana, dimenticandosi che anche al difuori di li c'erano uomini ai quali le sue parole sarebbero state utili a conoscere.

Dopo averci pensato un momento su mi rispose: "Vede, io sono qui. Non mi domando più perché ci sia arrivato o perché mi ci abbiano mandato. So soltanto che sono qui. E allora il mio posto è questo ed è qui che devo lavorare. Del resto, noi qui impariamo l'alfabeto; e che dovremmo fare, allora? appena imparata la lettera a, dovremmo fermarci e non imparare la lettera b perché qui vicino o a mille chilometri c'è chi non conosce nemmeno la lettera a, e dovremo andare ad insegnargliela prima di proseguire noi?".

Queste mi parvero e mi paiono tuttora fra le parole più vere che abbia mai avuto la fortuna di ascoltare. Il posto: l'accettazione del posto in cui sorte o volontà o tutt'e due insieme ci hanno portato, e mettercisi a lavorare senza pensare più se sia grande o piccolo. Grandezza e piccolezza sono dimensioni tutte esteriori: il posto diventa grande in proporzione del lavoro che uno ci butta, senza dispersioni velleitarie che nascondono un'inconscia tendenza al disimpegno. Questa è la lezione più profonda che mi diede don Milani: la stessa lezione per cui Barbiana, per il lavoro buttatoci da lui, era diventato un posto immenso.

 

PROFETA DISARMATO?

di Pietro Ingrao

Testimonianze, Fiesole (Firenze), dicembre 1967, n° 100, pagg. 892-894

Fascicolo monografico Lorenzo Milani, un prete

Conobbi don Milani sul finire del 1965. Mi accompagnarono da lui alcuni amici, che a don Lorenzo erano legati da una lunga consuetudine. Salimmo alla scuola di Barbiana in un pomeriggio di tardo autunno. C'era freddo, nebbia, e lungo i viottoli fangosi, su cui si arrampicava l'automobile, si disfaceva una neve sporca. Quel grigio crepuscolare, che toglieva ogni calore alla spoglia campagna del Mugello, mi fece sembrare ancora più nudo lo stanzone dove trovammo don Milani e i ragazzi, e ancora più scabra l'esperienza che là si svolgeva. Mancava anche la dolcezza del tempo e della campagna, pure così consueta in Italia: quasi a disperdere qualsiasi sospetto di arcadia.

Non ci furono convenevoli. Don Milani non concesse nulla -penso deliberatamente- nemmeno alla familiarità che aveva con coloro che mi accompagnavano. La discussione cominciò subito, come un lavoro da svolgere: dinanzi ai ragazzi della scuola, come era consuetudine. In realtà non fu una discussione, ma un lungo interrogatorio critico fatto al "politico" che saliva a Barbiana, al "politico" comunista. Il tema non era marginale: riguardava il rapporto del partito con gli operai e i contadini. Era una contestazione amara, che non cercava tanto una risposta ma voleva pungere ed incalzare, e non lasciava margini ad approssimazioni di comodo, nemmeno per cortesia verso l'ospite. Ebbi netta l'impressione -lo confesso- che il sacerdote, interrogando, non mirasse a sapere, ma a denunciare: qualche critica era anche ingiusta, o per lo meno affidata a conoscenze sommarie e a dati non sostanziali. Io avevo una grande ammirazione per le cose che aveva scritto e detto don Milani, e non mi inalberai.

Alla fine, quando don Lorenzo forse sentì che cercavo di non dare risposte di maniera, la discussione si sciolse e cominciò a tramutarsi in colloquio. Ma era tardi ormai e bisognava rientrare a Firenze.

L'incontro dunque si troncò, quando cominciava la parte più interessante, quando davvero cominciavamo a discutere. Non nascosi, agli amici che mi accompagnavano, l'impressione che avevo avuto di un carattere non solo forte, ma anche orgoglioso, estremamente convinto della verità che portava dentro di sé, quasi non avesse più bisogno di confrontarla con quelle altrui, tutte provenienti da un mondo che egli respingeva in radice. Ebbi anche l'impressione che egli non fosse in alcun modo incline a conoscere meglio i meccanismi di questa società, con la quale era in guerra e che non gli interessava nella sua morfologia interna: sembrava che, avendola giudicata, la partita fosse conclusa nel suo animo.

E perché allora -nonostante tale orgoglio profetico che sembrava chiuderlo in sé- l'impressione che io ebbi da quell'incontro fu assai forte, e il giudizio verso la sua battaglia resta così pieno di ammirazione? Per quel che mi riguarda, la spiegazione non è da trovare soltanto nella tempra morale dell'uomo, ma in un punto preciso della sua posizione. Era in lui, nelle sue parole, nelle cose che ha scritto sempre una coscienza robusta e drammatica dell'oppressione di classe, che spezza in due la società in cui viviamo. Raramente si trovano opere in cui come nelle sue i giudizi sui comportamenti umani, sulle forze politiche e sugli istituti sono così impregnati della nozione di questa spaccatura della società, sentita come lacerazione tragica, che colpisce, esclude, opprime prima di tutto gli operai e i contadini. E’ lecito dire che nei suoi scritti, nelle sue parole si respira sempre un giudizio di classe?

Non vorrei essere frainteso. Non sto minimamente tentando una "annessione" politica di don Milani, che sarebbe ridicola. E nemmeno sto dando un giudizio politico, o solo politico. Cerco di dire qualche cosa di più. Voglio sottolineare che in questo sacerdote si coglieva una conoscenza di fondo della struttura interna della nostra società: era una conoscenza non solo intellettuale: talmente vissuta da divenire dramma, tensione morale, sofferenza.

Perciò -anche se la sua informazione sui processi della società contemporanea appariva spesso sommaria e qualche volta (mi si consenta di dirlo) anche arretrata- la sua penetrazione del mondo in cui viviamo risultava così profonda. Aveva colto il nocciolo: e questo cogliere il nocciolo investiva tutta la sua esistenza. Quanti altri ce ne sono stati in giro in questi anni, di cui si può dire la stessa cosa?

Perciò la sua ispirazione democratica e civile, che era assai viva e attenta anche agli aspetti istituzionali, non appariva mai formale, mai di superficie. E la sua invettiva non respingeva, perché veniva da un parteggiare che non era di cronaca, ma riguardava lo scontro in atto nel tessuto stesso della società. E questo spiega, mi pare, perché le soluzioni parziali, settoriali, spesso illusorie che egli indicava come via per superare la spaccatura -pur essendo appunto parziali ed illusorie- non avevano mai aria di riformismo. II fatto è che egli sollecitava non miglioramenti e modificazioni quantitativi, ma atti veramente liberatorî che riguardavano la qualità della collocazione degli operai e dei contadini, la rottura dell’oppressione. La libertà che egli chiedeva per l'operaio e per il contadino era di sostanza. Anche se non sapeva trovare la risposta giusta, si sentiva che questa era la sua ragione di lotta, il criterio intimo della sua battaglia. E questo vuol dire che portava dentro di sé un'immagine dell'uomo non dappoco e non frequente. Quanti ce ne sono in giro che riescono a far vivere nei loro atti e parole e scelte una tale immagine umana?

Non ho elementi di conoscenza che mi permettano di ricostruire attraverso quali cammini, esperienze, matrici culturali egli fosse giunto a questa comprensione del nostro tempo. Ciò vuol dire che questi miei giudizi davvero sono affrettati e passibili di sbagli profondi: niente altro che una privata testimonianza: l’impressione che ha fatto su un comunista una figura come don Milani. Forse posso aggiungere un altro giudizio, e di questo sono abbastanza sicuro: in questi anni mi è capitato di leggere pochi scrittori italiani che avessero la sua forza. Anche in questo caso non mi riferisco semplicemente alla drammatica asciuttezza, al gusto "profetico" del suo scrivere. Egli era tra i pochi che raccontassero e rappresentassero non vicende passionali, ma scontri che riguardano forze collettive e moti profondi della società. Aveva dunque una forza di rappresentazione che era sintetica e non analitica, drammatica e non elegiaca.

Profeta disarmato? Gli utopismi, i moralismi, le parzialità di certe sue risposte e proposte esprimono -mi sembra- il limite a cui giungeva la sua visione del nostro tempo e in certo modo il suo isolamento, che era anche rifiuto di una dialettica reale con altre culture e con altri mondi. Qui forse il suo orgoglio diventava cosa diversa dall'orgoglio che è segno di passione totale: diventava non convincente. In questo senso sì, profeta disarmato: come intelletto, che testimonia e coglie una crisi, ma non sa preparare uno sbocco alla crisi. E lo dico non già perché alla sua lotta siano mancate la fortuna del successo e le soluzioni conclusive: le vittorie vengono quando vengono, e a volte vengono assai più tardi, e contano molto anche germi che daranno frutti lontani e parziali. Lo dico invece nel senso che don Milani -per quel che posso giudicare dal mio punto di vista- in sostanza non affrontava ancora il problema dello sbocco collettivo da dare alla crisi: restava, in certo modo, al di qua di questa domanda.

Ma questa non era la sua "parte" nella storia. E inoltre -non voglio dimenticarlo- egli giudicava muovendo da una gerarchia di valori diversa dalla mia, che è mondana e non altro.

 

IL MIO AMICO DON MILANI NON ERA COME DITE VOI!

di David Maria Turoldo

La Domenica del Corriere, Milano, 7 luglio 1977, pagg. 95-97

Scrive don Milani a Gianni Meucci in una lettera in data 12 dicembre 1956 "mi pare di averti già detto che don Bensì mi ha consigliato di non farmi presentare in nessun posto dal p. David e non per disistima di lui (tutt’altro), ma perché gli dispiace che io sia accompagnato al primo incontro da un nome sul quale ci son già prevenzioni e giudizi già dati. La cosa mi pare giusta e penso che la condividerai anche tu. Spero che tu sia sufficientemente convinto del bene che mi farete ecc.".

Così, non avendo potuto presentare mentre era in vita le prime fatiche di don Milani, le famose "Esperienze Pastorali", sono ora lietissimo di parlare di lui a dieci anni dalla sua morte. E lo faccio anche per un dovere, perché quando si sentono ritratti edulcorati come quelli che ho sentito in questi giorni a certi telegiornali, non si sa neanche se sia maggiore l'indignazione o l'avvilimento che ti fa reagire fino alla sofferenza. Proprio l'altro giorno mi sono detto: va che finirà male anche don Milani; finirà peggio di sant'Antonio! Infatti pochi sanno che sant'Antonio era uno dei santi più scatenati che sia mai esistito; molti lo paragonavano a un san Giovanni Battista con la scure in mano; e predicava in modo tale che fino a ora non sono ancora pubblicati in italiano i suoi "Sermones Domini"; e perché un tempo quando li volevo pubblicare io, mi sono sentito rispondere da quelli dell'Imprimatur, "che avrebbero potuto scandalizzare la gente". Capite? Le prediche di sant'Antonio che scandalizzano! Infatti è vero che non risparmia nessuno, neppure i vescovi (del suo tempo si capisce); dice che "a volte nelle vesti rosse dei monsignori e dei vescovi cola il sangue dei poveri"; dice che "a volte certi vescovi sono peggio dell'asina di Balaam: almeno questa si era accorta quando passava l'angelo del Signore invece i vescovi...". Così anche i santi devono essere purgati. E poi sant'Antonio era brutto, finito per idropisia; sformato ad appena trentasei anni di età, dopo essere passato sull'Italia per dieci anni come un uragano, come un temporale di Dio; ed era Antonio che san Francesco chiamava "mio Episcopo"... Guarda cosa ti hanno fatto di sant'Antonio: un santo per fidanzate, una specie di efebo che se la gioca con quel Gesù bambino sulle mani. Qui bisognerebbe certamente aprire un capitolo sulla patologia degli agiografi e sul destino dei santi. Ho già scritto un piccolo opuscolo dal titolo "Povero sant'Antonio"...

Avrà la stessa sorte anche don Milani? Già l'altra sera al telegiornale pareva quasi un santino da prima comunione: naturalmente "prete obbedientissimo". Così come tutti i famosi proscritti: obbedientissimo Manzoni, obbedientissimo Teilhard, obbedientissimo don Mazzolari; e ora obbedientissimo don Milani. Mai che si domandino costoro a chi e a che cosa obbedivano questi grandi uomini. E perché sono rimasti dentro la Chiesa: liberi e fedeli fino alla morte! Loro li chiamano obbedientissimi: magari dopo averli fatti sputare sangue. Così come è successo per don Mazzolari da parte di un vescovo che in vita lo additava come il "più grave pericolo per la Chiesa", e dieci anni dopo portava i seminaristi sulla sua tomba a Bozzolo scongiurando i giovani di essere "obbedienti" come don Mazzolari. Così ora anche per don Milani? Dopo neanche 10 anni dalla sua morte; quando dal cardinale Florit e da molti altri preti tuttora viventi era stato giudicato "un bubbone pestifero" da tagliare subito, e perciò era stato confinato da San Donato di Calenzano vicino a Prato a Barbiana nel Mugello: come dire l'isola di Pianosa per i più pericolosi criminali.

L'altra sera mi è toccato di sentire il panegirico di lui come di un esemplare del non-dissenso (a parte che poi non si sa chi più dissenta nella Chiesa; perché ve li raccomando questi lefebvriani!, questi "devoti del papa", a una condizione, che il papa la pensi come loro; diversamente, per esempio, anche papa Giovanni non va bene). E ho sentito dire come un elogio che è "rimasto sempre prete"... Sarebbe stata bella: che non fosse rimasto prete! Questa gente non capisce come uno che crede non può non rimanere fedele, succeda qualunque cosa. Uno può essere cacciato, ma non può andarsene! Contrariamente a quanto è scritto in un documento dei vescovi lombardi dove si dice ai cattolici inquieti e scontenti "di andarsene"... San Bernardo dice che "chi crede nel regno di Dio è sempre un inquieto". Nella Chiesa uno ci sta perché ci crede, perché c'è Gesù Cristo: perché c'è lo Spirito santo e i sacramenti e la liturgia. E i sacramenti e la liturgia e lo Spirito santo sono cose infinitamente più grandi di noi tutti, compresi i preti. Diversamente l'invito potrebbe essere valido anche per quelli che l’hanno scritto. E poi don Milani si era appena convertito, ed era appena entrato nella Chiesa, si era appena fatto prete. E quando uno si converte, non scherza.

Eravamo grandi amici

Così l’altra sera mi sono sentito un don Milani che non riconoscevo più. Non una parola circa le sue "Esperienze Pastorali" che sono una gettata di lava incandescente; e lui già che si rivela in quel libro come un cratere in eruzione nella chiesa di Firenze, un punto dove la "crosta terrestre" ha ceduto. Quanto era soffocato dal sistema, lì si è coagulato e ha fatto colpo. Ed è scoppiato un autentico terremoto; tanto che il Sant'Uffizio interviene con forza per ritirarlo dal commercio. Niente, non una parola sulla "Lettera ai giudici", sulla "Risposta ai cappellani militari", sulla difesa degli obiettori di coscienza, per le quali cose ha dovuto subire perfino un processo da parte del tribunale. Non una parola sulla sua amarezza per come si è votato il famoso 18 aprile: vittoria che egli chiama "la più amara sconfitta dei poveri". Non una parola sul suo confino, eccetera eccetera.

Certo che è un santo! Ma non è che i santi debbano essere delle mezze cartucce? Anzi, io che l'ho conosciuto, col quale ho passato i più infuocati incontri del mio sacerdozio, tenendogli appunto testa per via di quella giustizia al grado di furore di cui è stata divorata la sua vita più che dalla leucemia, dico che solo quando la Chiesa avrà il coraggio di riconoscere la santità di don Milani senza togliere neppure una parola (tanto meno le sue parolacce!) alla sua esperienza -tale e quale egli l'ha vissuta- allora dico che avremo una Chiesa veramente nuova; e una nuova santità muoverà il mondo. Sono perfino lieto della sua citazione dove dice: "Sto pensando di scrivere a p. David per il libro. Non sono punto convinto delle cose che urlavate domenica scorsa. Spero di poterle riurlare presto insieme...". (Barbiana, 1 luglio 1955.) Così eravamo amici, fino a urlare insieme là dove non eravamo d'accordo. Ma grandi amici: senza bisogno di ridurlo alla nostra misura! Senza dire poi che quando qualche volta mi è capitato di confessarlo, allora veramente ho sentito, per merito di lui, quanto grande e misterioso è questo sacramento della fraternità e del perdono. Cose troppo delicate per dirle in un qualsiasi articolo. Anzi, è questa una delle ragioni per cui io su don Milani ho preferito piuttosto tacere. E però questa volta, davanti a certe manipolazioni e storpiature, il silenzio poteva essere anche una colpa.

Capitolo II°

Lo scandalo di Esperienze pastorali

Esperienze pastorali ha, come ci dice Vittorio Citterich, "la forza e l’impegno di una profezia": già nel luglio ’58 (Milani era ormai a Barbiana da tre anni e sette mesi) risuona l’appellativo di profetico attribuito all’operare del priore.

Una definizione che, negli anni, si ripeterà con frequenza crescente, fatta propria da numerosi autori.

Le vicende legate al libro di Milani sono state così a fondo esaminate e studiate che risulta estremamente arduo parlarne senza ripetere affermazioni meno che ovvie.

Per tale motivo si è cercato, in quest’antologia, di documentare senza troppe pretese -a grandi linee ed in modo certo parziale- il percorso dell’analisi critica di Esperienze pastorali, sulla sponda dei favorevoli come su quella dei contrari.

La recensione fatta da padre Tito Centi è in sostanza amichevole, quasi "paterna".

Il libro è ritenuto "indispensabile" per conoscere le condizioni non solo religiose di una Toscana rurale basata sui rapporti di mezzadria; si dicono cose "sacrosante da meditare", con "parole coraggiose e quasi temerarie", in un libro che "in sostanza [può] fare del bene".

Il religioso fa anche dei rilievi critici, e quasi tutti "politici". In primo luogo al "classismo" di Milani, perché "i ricchi non hanno ricevuto da lui l’amore compassionevole" ma "sono stati colpiti senza discriminazione alcuna".

Altri rilievi riguardano affermazioni "calunniose" sul partito della Democrazia Cristiana e i duri giudizi di Milani sulla corresponsabilità della Chiesa nella vita politica e sociale.

In ultimo si rinfaccia a Milani un atteggiamento di compromesso in quanto egli non nega l’assoluzione al militante del PCI, scomunicato ai sensi del Decreto del Sant’Uffizio.

Con ben altri toni interviene invece don Fausto Vallainc, colui che dirige il settimanale della Curia su cui appare la recensione di Centi. Tocca a lui il compito di stroncare decisamente il libro, "inquinato di troppa superbia e viziato da troppa sicurezza di sé e disprezzo degli altri".

Ed aggiunge poi, in una lettera privata a padre Centi (la quale fa seguito ad una richiesta del padre domenicano di permettere a Milani di chiarire le proprie posizioni su La Settimana del clero), come don Lorenzo manchi assolutamente di sensus Ecclesiae, ragion per cui si riserva il diritto di non pubblicare la replica, ove "inadatta, per tono e per contenuto".

Illuminante è anche il tono della lettera inviata dall’allora Arcivescovo Coadiutore della diocesi fiorentina, Ermenegildo Florit, in cui si auspica che Milani sappia "accettare con docilità filiale" la disposizione del Sant’Uffizio che ordina il ritiro dal commercio di Esperienze pastorali.

Dell’articolo di Giorgio Chiaffarino (che peraltro dà una lettura assai favorevole del libro) colpisce innanzi tutto il fraintendimento che lo porta a vedere, nell’elaborato lavorio stilistico proprio di Milani e dei suoi allievi, la mancanza di una anche "minima preoccupazione di stile", una "immediatezza, sia pure letterariamente incolta".

Che si tratti di un giudizio tanto azzardato quanto affrettato lo dimostreranno e la genesi degli scritti milaniani successivi e l’assegnazione al più famoso di essi (Lettera a una professoressa) del Premio Prato, un premio letterario di valore assoluto (ex aequo con Paolo Spriano, per la saggistica).

E’ un fraintendimento nel quale non incorrerà invece Luciano Bianciardi, il quale al contrario sottolinea come dietro alla traduzione "in una lingua accessibile, parlata, addirittura contadina" possa celarsi addirittura "il gusto, ironizzato, di un vezzo letterario".

Nella recensione di Ignazio Silone si dà invece atto dell’andare controcorrente del libro, laddove esso propone di far crescere nel povero "il senso della propria superiorità, mettergli in cuore l’orrore di tutto ciò che è borghese", come condizione perché i borghesi possano essere eliminati "dalla scena politica e sociale".

 

QUI VA IL FILE .JPG, sull’intera pagina, direi

Lettera di Ermenegildo Florit a don Milani, per annunciargli il ritiro del suo libro Esperienze pastorali dal commercio, su disposizione del Sant’Uffizio

 

Il testo della lettera è il seguente:

Firenze, 19 dicembre 1958

Molto Rev.do e caro don Milani,

da Roma sono stato incaricato di comunicarLe quanto segue:

La S. Sacra Congregazione del S.Offizio ha disposto, dopo aver sottoposto ad accurato esame la Sua recente pubblicazione "ESPERIENZE PASTORALI" che essa "venga ritirata dal commercio". Ho già avvisato l’Editore a mettere ciò in esecuzione.

Quanto sopra potrà recarLe qualche amarezza.

Sono tuttavia sicuro che la Sua pietà sascerdotale l’aiuterà ad accettare con docilità filiale la disposizione della Santa Sede. Il Signore non mancherà di venirLe incontro con i Suoi lumi e con la Sua grazia confortatrice.

Augurandole un santo Natale, Le invio paterni saluti, benedicendola.

Suo dev.mo nel Signore

Ermenegildo Florit

Arciv. Coad.

____________

Molto Rev.do Signore

Sac. D. Lorenzo MILANI

Parroco di BARBIANA

(Vicchio di Mugello) Firenze

UN LIBRO DA COMPRARE

"ESPERIENZE PASTORALI"

DI DON LORENZO MILANI

di Vittorio Citterich

Politica, Firenze, 1° luglio 1958

Il recente libro di don Lorenzo Milani "Esperienze Pastorali" (edizioni Lef, pp. 166, L. 1500) ha, in un certo senso, la forza e l’impegno di una profezia. Ma bisogna subito chiarire l’espressione, a scanso di equivoci, perché ricordiamo ancora come restò allibita, una parte della cultura italiana che porta i galloni dell’ufficialità, quando La Pira -nel 1956- dette il tema "Storia e profezia" al V convegno per la pace e la civiltà cristiana.

Il termine "profezia" evocò immagini di indovini e di fattucchiere che predicono l’avvenire. Qualcuno, scambiando il suo ignorante provincialismo (che nella fattispecie era marxista) per uno slancio di "ésprit de finesse" scrisse su un’autorevole terza pagina che il Sindaco di Firenze aveva toccato il fondo dell’abisso e s’era dato alle arti magiche.

La relazione del dotto padre Daniélou, in Palazzo Vecchio, che, in sostanza, si limitava a riassumere alcuni dati di teologia ebbe, per molti, il fascino sorprendente dell’inedito: "Il profeta non è colui che prevede un avvenire irrevocabilmente determinato in anticipo nel corso delle stelle. Lasceremo agli indovini, agli eterni Nostradamus, la cura di leggere il nostro avvenire nelle linee della mano. Il profeta è colui che dice all’uomo nel nome di Dio come deve fare l’avvenire. Ciò che l’interessa non è il peso della sostanza storica, che riguarda i tecnici, ma la forma che deve darle la volontà dell’uomo... La visione profetica culmina nel senso del prezzo delle anime create a immagine di Dio".

S’è fatta questa premessa iniziale perché ci sembra indispensabile per situare il libro di don Milani nella sua esatta prospettiva: le "Esperienze pastorali" di questo giovane sacerdote sono di difficile comprensione se non si afferra subito la loro matrice religiosa e, appunto, il loro senso profetico. Ogni pagina del libro, ogni pensiero, ogni polemica e anche le numerose statistiche che sono riportate, assumono il loro significato pieno soltanto se si riesce a tenere sempre presente quel "senso del prezzo delle anime create a immagine di Dio" che Daniélou indicava come il culmine della visione profetica della storia e che sembra aver ispirato, in ogni momento, la fatica di don Milani. E’ questo che rende rigorosamente unitario il suo libro e p[a]rticolarmente importante la sua testimonianza.

Ridotte all’essenziale le "Esperienze pastorali" ci dicono questo: un giovane sacerdote esce dal seminario per predicare al popolo la Parola di Dio. Si trova con la responsabilità, misteriosa e tremenda, di dover portare alla salvezza le anime che gli sono affidate. Non sono anime astratte ma ciascuna ha il suo volto, il suo problema, la sua realtà umana: la "città terrena" da portare dentro le mura eterne della Gerusalemme celeste non è un concetto filosofico, per il prete, è la comunità visibile, reale, che vive nelle case che stanno intorno al campanile della chiesa, è il popolo che gli è stato affidato.

Il libro di don Milani racconta, con cifre, dati e osservazioni dirette, la storia del suo incontro con il popolo di San Donato, "comunità visibile" da portare alla salvezza. Ed è la storia di un prete che, ad un certo punto, per mantenere il suo impegno religioso deve rimuovere, con un’opera di supplenza, alcuni ostacoli di natura civile, primo fra tutti l’ostacolo della "depressione culturale" della sua gente. Fonda così, lui prete, una scuola popolare per i giovani, una scuola di istruzione civile -si badi bene- e non di dottrina religiosa. C’è nel nostro popolo, constata don Milani, "un abisso di ignoranza religiosa" che rende abitudinaria (e quindi instabile) la vicinanza alla chiesa. E dice: "E’ nostra opinione che la soluzione (del problema dell’istruzione religiosa) dipenda dalla soluzione di quello dell’istruzione civile. Ed il motivo è che, dopo tutto, l’istruzione religiosa che occorre per vivere da buon cristiano è in fondo poca cosa. Se la diffusione nel nostro popolo è parsa finora una chimera non è per una sua intrinseca difficoltà, ma solo per la mancanza del mezzo indispensabile cioè un minimo di preparazione linguistica o logica. La esperienza fatta nella Scuola Popolare ci dice che quando un giovane operaio o contadino ha raggiunto un sufficiente livello di istruzione civile, non occorre fargli lezione di religione per assicurargli l’istruzione religiosa. Il problema si riduce a turbargli l’anima verso i problemi religiosi. E questo, col lungo contatto assicuratoci dalla scuola, ci è risultato estremamente facile. Quando poi sia nato questo minimo di interesse e contemporaneamente sia stato raggiunto quel minimo di livello intellettuale e culturale che occorre per intender la parola, allora bastano e avanzano dei buoni vangeli domenicali in forma catechistica, dei libri e qualche spiegazione che il giovane stesso si darà cura di chiedere al sacerdote. Sui giovani illetterati invece tutto questo e anche molto di più è stato assolutamente inefficace perché essi per pochezza intellettuale né avevano gusto di cercar queste cose, né potevano affrontarle con attenzione interiore, né possedevano sufficientemente la lingua ecc. da potersene servire".

La necessità di garantire i "punti di partenza", come si usa dire, tra i giovani dei diversi ceti sociali che si accingono ad affrontare la vita è oggi affermazione comune, un dato elementare della democrazia. E’ uno dei punti obbligati attraverso i quali bisogna passare per trasformare lo Stato liberale in Stato democratico moderno.

Il problema si incontra, nel libro di don Milani, con una necessità di ordine religioso: e poiché non si tratta di un problema isolabile dagli altri problemi con i quali si intreccia (per elencarne alcuni: zone economicamente depresse, sicurezza del lavoro, piena occupazione, problemi della casa, dell’esodo dalle montagne, della mezzadria, del potere politico) le "Esperienze pastorali" del giovane sacerdote ci portano alla conclusione -attraverso l’analisi di un "caso concreto"- del "dovere religioso" come motivo ispiratore di una politica efficace di riforma della struttura sociale italiana.

Dovere religioso: cioè che non è fondato soltanto su un giudizio di carattere storico-politico, ma è fondato anche su un motivo, di carattere assoluto, di fedeltà religiosa autentica.

"Adeguare l’ordine sociale ai principi cristiani", frase tante volte ripetuta, al punto da sembrare spesso generica e sfuggente, mentre contiene una indicazione operativa sempre efficace, se si intende con purezza di cuore e con intelligenza delle situazioni concrete su cui deve incidere.

Don Milani la grida al nostro indirizzo -di noi laici- a voce dispiegat[a] e ci mostra che lui, prete, ha intanto adeguato qualcosa, mettendo in piedi la scuola popolare perché i giovani contadini e i giovani operai imparino a "ragionare".

Con paterna saggezza, l’Arcivescovo di Camerino mons. Giuseppe D’Avack, dopo aver ricordato la storia di questi ultimi decenni e le "crisi di crescenza" che li hanno caratterizzati, osserva nella prefazione che tocca ai laici "un campo di vastità e di importanza sterminata" nel quale essi debbono responsabilmente impegnarsi. Certamente non nel senso di una rivendicazione sindacale -così come l’intendono i grandi polemisti laicisti (che sono poi quelli che, si diceva all’inizio, scambiano i profeti con le fattucchiere)- ma nel senso e nello spirito di una solidarietà concreta e fraterna col sacerdote, per togliergli dalle spalle il pesante fardello delle "supplenze" a cui l’hanno costretto la nostra assenza e la nostra disobbedienza.

Sono, ci sembra, le conclusioni ultime a cui arriva don Milani.

 

LE "ESPERIENZE PASTORALI" DI UN CAPPELLANO

di Padre Tito S. Centi O.P.

La Settimana del Clero, Padova, 14 settembre 1958, pag. 5

Grande novità alla Libreria Editrice Fiorentina di Via Ricasoli: un libro esplosivo come la dinamite quello di Don Lorenzo Milani. Parole coraggiose e quasi temerarie sono qui frammiste a schemi, diagrammi e tabelle; e il tutto è condito da uno stile fresco, addirittura pungente.

Parole coraggiose e quasi temerarie sono qui [l]e sue affermazioni; ma in sostanza penso che possa fare del bene. Anche se qualcuno è già pronto a definirlo un libro scandaloso. A questi critici troppo sbrigativi si potrebbe forse replicare col Vangelo: "Necesse est ut veniant scandala".

Esperienze Pastorali è ormai indispensabile per chi voglia conoscere a fondo le condizioni religiose, sociali e civili (o incivili) di tanta parte della Toscana. Con tutta franchezza io devo almeno riconoscere di aver imparato tante cose che non sapevo. Eppure sono in Toscana da più di trent’anni. Chi è nato nell’Italia non appoderata e non soggetta al sistema della mezzadria, non può capire facilmente l’atteggiamento antisociale così complesso del colono, o dell’ex-colono toscano: anche se è nato povero tra i poveri in altre regioni, cioè nell’Italia arroccata; ossia là dove la popolazione rurale vive nei piccoli o grandi centri, confusa con gli artigiani e con gli operai salariati.

La massa dei lavoratori toscani, che viene dalla campagna, sente pesare sopra di sé una condizione di inferiorità in cui il dislivello economico incide solo in minima parte. Perciò la nobile iniziativa della Scuola Popolare, promossa da Don L. Milani merita massima attenzione, e la più sincera ammirazione. Le ripetute visite a S. Donato a Calenzano mi han dato modo di conoscere codesta scuola, alla quale l’Autore ha dedicato e sacrificato fatiche e sonno, rischiando persino la pelle. Essa gli ha permesso di penetrare a fondo nell’anima del popolo, sia a S. Donato che a S. Andrea a Barbiana. Così, cioè con la scuola serale, questo giovane prete ha potuto approfondire una diagnosi, che mette a nudo la radice delle molte miserie in cui si dibatte la vita religiosa in questa regione, la quale in passato ha dato alla Chiesa centinaia di Santi.

Speriamo, quindi, che l’opera trovi molti lettori, non solo in Toscana, ma un po’ da per tutto. Ci sono troppe cose sacrosante da meditare, sebbene non sia un libro di edificazione. Don Milani non pretenderà che io ne faccia qui un florilegio. Devo invece notare gli elementi negativi; che potrebbero nuocere ai lettori meno provveduti. Sarebbe eccessivamente lunga anche questa impresa; perché sono materialmente troppe le affermazioni discutibili in queste 471 pagine. Ma in sostanza ho notato quattro motivi insistenti, che non mi sembrano assolutamente accettabili:

I - Il motivo classista. Per condividere la causa del povero, il prete non può dimenticare che anche i ricchi sono parte integrante del suo gregge, aventi anch’essi pieno diritto al suo amore e al suo compatimento. Facendo un po’ di analisi, o di esame di coscienza, Don Lorenzo dovrà concedere che i ricchi non hanno ricevuto da lui questo tributo di amore compassionevole... Anzi, sono stati colpiti senza discriminazione alcuna. Lo so che questo sentimento oggi non è di moda; però è sempre doveroso per un prete.

Sono troppe nel libro le mezze esplosioni di odio di classe, che certo non è di marca cristiana.

Urta poi la frequente materiale identificazione della classe operaia, o dei poveri, con il social-comunismo. Don Milani doveva pur sapere che il suo libro sarebbe stato letto anche da non toscani. E quindi doveva tener conto che la maggioranza degli umili lavoratori italiani ancora oggi considera un’offesa l’essere considerati comunisti o socialisti. E ce n’è ben donde!

Del resto, in Italia almeno, anche i partiti di sinistra sono interclassisti: non dico per programma, bensì nella realtà dei fatti. Basta guardarsi intorno. Se qui in Toscana i marxisti sono così forti, la colpa in buona parte è di certa borghesia; la quale, nella speranza di occupare domani cariche governative meglio rimunerate e più onorifiche, domina incontrastata nei municipi, e vive alla greppia del partito, curandone, con ardore pari all’interesse, l’organizzazione e la propaganda. Il tutto alle spalle della povera gente.

Non vorrei che qualcuno pensasse di dover mettere in dubbio l’anticomunismo di Don Milani: egli disprezza cordialmente e la dottrina di Marx, e la prassi diabolica di tutto l’apparato comunista. Quello che invece preoccupa è la sua pretesa "equidistanza".

II - Il pallino dell’equidistanza non riesco proprio a digerirlo. Don Lorenzo pretende di giudicare con la stessa misura salomonica il comunismo e la D.C.; anzi qualche volta si ha la netta impressione che si voglia spartire con equidistanza tra comunisti e cattolici, tra L’Unità e L’Avvenire d’Italia. Ma per riuscire a tanto si è costretti a mettere sullo stesso piano un giudizio reticente e una affermazione calunniosa. Così avviene che da una parte si cola il moscerino, e dall’altra si lascia passare un cammello. E anche se non si lascia passare, si pretende che le due bestie abbiano lo stesso peso specifico.

Non si creda che questo sia per Don Milani un espediente -sia pure poco pulito- per iniziare un dialogo: egli pretende di farne un principio assiomatico di buona condotta. Egli così non avverte un grave pericolo: il pericolo d’incoraggiare certi cattolici, i quali ricorrono a questo giuoco di equidistanza, perché vogliono distinguersi di fronte agli avversari dai cattolici intransigenti; o perché non hanno il coraggio di difendere i propri amici di fede impegnati in serie responsabilità di governo, che in regime democratico offrono meno allori che grattacapi, o condanne.

III - La responsabilità della Chiesa. Don Milani insiste troppo, e troppo rudemente su un giudizio di corresponsabilità della Chiesa nella politica e nella vita sociale. E’ innegabile che il sentimento cristiano ha inciso molto nella vita sociale e politica del nostro occidente, specie nei tempi andati. E tutti siamo impegnati a far sì che codesto sentimento seguiti a portare i suoi frutti di bene, anche in questo campo, per l’avvenire. Ma sarebbe da ingenui credere a una radicale cristianizzazione della vita sociale e politica; specialmente in mezzo a un popolo così indocile come quello italiano. Anche ai tempi tanto decantati di Innocenzo III (nei tempi della fede...), nonostante le intenzioni e le proteste del Pontefice i Crociati assaltano i greci di Costantinopoli invece di combattere contro i mussulmani di Palestina, e il popolo romano costringe il suddetto Papa, con le sassate, a fuggire da Roma. In tempi anche più disgraziati lo spirito pagano invase persino la Curia Romana. I delitti di certi uomini di Chiesa, ricordiamolo, furono possibili perché troppa gente viveva in un’atmosfera satura di irreligiosità, ossequiente a pregiudizi e principii, che inutilmente la Santa Chiesa e i Santi della Chiesa avevano tentato di sradicare. Non è mai bastato un governante cattolico per fare un popolo giusto e santo.

Si fa presto a pretendere dalla Chiesa, e dai cattolici, appellandosi a maggioranze assolute, le quali in democrazia non danno diritto all’instaurazione di un regime; e non impediscono il boicottaggio degli avversari. Nessuno ci dà il diritto di essere così ingenerosi nel giudicare un partito cattolico, da non riconoscergli alcun merito; ma soltanto dei demeriti. L’intransigenza di Don Milani in questo campo è davvero ingenua. Egli pretende che i cattolici in cinque anni di governo capovolgessero pregiudizi secolari, sovvertendo situazioni sociali, che, bene o male, formano il tessuto connettivo della nostra convivenza. I cattolici avrebbero dovuto procedere, anche col pericolo di scatenare violente reazioni, capaci di compromettere la libertà e la pace.

Sul terreno pratico è così difficile attuare la logica più elementare. Il nostro Cappellano, p. es., confessa lui stesso di non essere riuscito in sette anni a far calare le spese sempre più assurde per le Prime Comunioni e per gli Sposalizi. Eppure anche il vecchio Proposto, l’indimenticabile Don Daniele Pugi, lo appoggiava in pieno. E se è così difficile governare una parrocchia, è mai possibile pensare che sia più facile governare una nazione?

Nel dare certi giudizi noialtri sacerdoti dobbiamo andarci piano. Quando si tratta di cose contingenti è in giuoco l’arte -il mestiere- di governo. Ora, noi dobbiamo insegnare la dottrina; ma i mestieri, specialmente certi mestieri, non ci stanno bene a mano.

Alla fine del suo libro Don Milani fa delle proposte conclusive piuttosto paradossali. L’unica sostanzialmente accettabile, purché intesa nei debiti modi, è la terza. E a pensarci bene bene, ci accorgiamo che essa è stata accettata dagli ecclesiastici degni di questo nome, anche per il passato. La Chiesa non fa politica: non vuole e non deve farla. La Chiesa ne giudica dall’alto, intervenendo solo a difesa dei principii e dei diritti conculcati. Essa però nel giudicare non dimentica che chi governa deve fare i conti con la realtà, pur sognando ideali. (Gli stessi comunisti sono costretti a segnare il passo nell’attuazione dei loro programmi, dinanzi alla resistenza dei governati). E’ ben diverso il caso, quando si tratta di azioni individuali. Allora il cristiano non deve fare i conti con esecutori presumibilmente e praticamente refrattari alla perfezione: allora deve misurare se stesso sull’ideale evangelico, e contare con assoluta fiducia nell’aiuto della grazia.

Questo significa non già avere due pesi e due misure, ma semplicemente capire le differenze esistenti nella realtà.

IV - La tattica del prete. Concludiamo rilevando ancora una volta una clamorosa contraddizione di Don Milani con se stesso. Dopo aver gridato in tutti i toni contro il compromesso, fino ad esigere l’attuazione dell’ideale in campo politico, il nostro valoroso Cappellano rinnega l’intransigenza in campo religioso. In proposito il sottoscritto ebbe già con lui uno scambio di lettere aperte (vedi Vita Cristiana, 1952, fasc. VI). E non sono riuscito a capire perché nel suo libro sia stata pubblicata la "Lettera a un predicatore", e non la replica del predicatore. Da tutto l’insieme vedo che quella replica non ha convinto il giovane Cappellano di S. Donato. Ma forse poteva servire a qualche confratello, che avrebbe bisogno di rivedere certi atteggiamenti di tolleranza, dove più che l’amore delle anime pesa l’amore del quieto vivere.

Il sottoscritto ha sempre difeso l’accettazione pura e semplice del Decreto del S. Uffizio sul comunismo, perché è l’applicazione di un principio di etica naturale. Don Milani invece pare che voglia insistere in una tattica macchiavellica, che riduce la morale cristiana a una morale provvisoria. Purtroppo questo possibilismo non è un fatto isolato in Toscana, specie in Firenze e paesi circonvicini. Ma a quanto pare la "prudentia carnis" non giova: il 25 Maggio abbiamo avuto l’ennesima riprova della sua utilità... per la diffusione del comunismo.

Don Milani ha invece ragioni da vendere quando insiste a dire, che non si educa il popolo con le nostre incoerenze.

Questi in sostanza i punti negativi che abbiamo potuto notare nell’opera di Don Milani. I nostri lettori si ricordino però che le Esperienze Pastorali di questo giovane sacerdote non sono riducibili a questi quattro punti.

 

LETTERA A PADRE CENTI

di don Fausto Vallainc

La Settimana del Clero, Padova, 14 settembre 1958, pag. 5

Caro Padre Centi,

ho creduto opportuno pubblicare integralmente la sua recensione, benché non sia totalmente d’accordo con Lei nelle premesse. Il Suo nome ben noto, la Sua esperienza dei problemi religiosi in Toscana, la serenità del Suo giudizio nel condannare alcuni punti e "motivi insistenti" del libro di Don Milani, sono tutte ragioni più che sufficienti per presentare col dovuto rilievo su "Settimana del Clero" il Suo articolo di critica meditata. Spero che, a sua volta, vorrà consentirmi alcune osservazioni dettate unicamente dalla mia coscienza di sacerdote, poiché so di avere non poche responsabilità nei confronti dei lettori miei Confratelli.

Ho accuratamente evitato di essere un "critico sbrigativo", come dice lei: perciò, con profonda convinzione -dopo aver attentamente letto il libro e confortato dalla mia modesta esperienza del mondo ecclesiastico- affermo che il libro di Don Milani non solo "non è un libro di edificazione" ma è un libro che può fare molto più male che bene. Soprattutto ai sacerdoti giovani che sono, per natura, facilmente indotti da episodi marginali alla critica demolitrice e sono spesso sprovvisti di quelle informazioni esatte che assicurano una visione ampia e totale dei problemi.

A questo punto, so benissimo di essere ormai catalogabile senza appello tra i "conservatori" e i "retrogradi", non da Lei che è persona aperta e comprensiva, ma da quei critici veramente "sbrigativi" che hanno elogiato le "Esperienze Pastorali" su "La Stampa" di Torino, "Il Popolo" di Roma, "Adesso" di Milano, "Coscienza" di Roma, "Il Nostro Tempo" di Torino, ed hanno lanciato accuse in anticipo a quanti non sarebbero stati del loro parere. Citerò, dunque, anch’io il mio bravo testo latino e dirò: "Amicus Plato, sed magis amica veritas". Ma, veniamo al sodo.

Non ho nessuna difficoltà ad ammettere che vi sono nel libro di Don Milani molte e belle e grandi verità degne di meditazione. Ma, purtroppo, anche le verità sono presentate in una forma paradossale e a volte caricaturale, che le diminuisce e le ridicolizza. In ogni cosa umana, anche in quelle che hanno attinenze con la religione e il culto, vi possono essere degli errori e dei difetti; è certo che molti aspetti della vita delle nostre parrocchie devono essere riveduti e riformati. Ma da questa ovvia constatazione all’"iconoclastismo" totale di Don Milani, parecchio ci corre. Che cosa resiste infatti al ciclone che egli vorrebbe far irrompere nelle parrocchie? Nulla!

Ecco, a scanso di equivoci, le sue idee: le feste, le processioni, le quaresime e similia devono essere abolite, perché inutili e perché permeate di superstizione e di profano; l’Azione Cattolica è la prima a dover essere soppressa, perché causa di divisioni; gli oratori, i campi sportivi, i cinema parrocchiali, ecc. sono da considerarsi istrumenti di Satana; i giornali cattolici fanno il paio con quelli comunisti per le bugie di cui sono saturi; tutti i parroci suoi vicini sono dei poveri uomini che pestano l’acqua nel mortaio quando non cooperano alla rovina del Chiesa; la Democrazia Cristiana e il Governo sono le bestie nere contro cui ogni parroco deve lanciare anatemi; tutti i poveri sono buoni o almeno giustificabili anche nei loro difetti, mentre i ricchi sono usurai, sfruttatori, pezzi da galere; un giovane, solo perché studente, appartiene già alla categoria dei ricchi e quindi il parroco può benissimo lasciarlo perdere.

Le sembra poco tutto questo, caro Padre? Crede che possa fare del bene, in un momento in cui molti valori sono messi in discussione anche in casa nostra, un libro che demolisce tutto, che critica tutti, che riconosce una sola autorità: quella di Don Milani, e che esalta le capacità intellettive ed organizzative di un solo uomo, che è ancora Don Milani?

Perché penso che abbia riportato anche Lei dalla Sua attenta lettura di "Esperienze Pastorali" l’impressione che, dall’età apostolica ai nostri giorni, non vi sia mai stato alcuno che abbia fatto qualche po’ di bene nella Chiesa, né che il Papa, i Vescovi, il Clero e il Laicato cattolico abbiano oggi un minimo di sensibilità circa i mali che angustiano il nostro tempo e tanto meno abbiano il desiderio di porvi rimedio.

C’è per Don Milani un solo porto di salvezza per ripararci dall’uragano che farà presto dell’Italia un paese di missione, ed è naturalmente un porto scoperto ed attrezzato da lui: la scuola popolare. E’ questo il toccasana di ogni male a cui finora le Gerarchie ecclesiastiche non avevano pensato; ma le vie di Dio non sono impreviste e misteriose? Lungi da me il voler negare l’utilità grandissima di un tale mezzo per l’approccio dei giovani, per suscitare la loro confidenza, per penetrare nella loro anima e nel loro mondo. Ma e gli adulti? e il settore femminile? e gli studenti? Sono domande che nel libro non hanno risposta. E gli operai stessi che non frequentano la scuola popolare? Don Milani li "infama" e li "fa verdi" alla prima occasione... Né si dimentichi che per fare una scuola popolare efficiente ci vogliono doti non comuni e personalissime.

La parte migliore del libro è quella che riguarda la sociologia religiosa della parrocchia di San Donato nella quale l’Autore ha fatto le sue brevi esperienze pastorali. Lo studio dell’ambiente rurale è buono come pure la descrizione della mentalità degli operai; sono pure da approvarsi le critiche a metodi e sistemi padronali e le reazioni nei confronti di una vita abbrutita condotta ancora oggi da troppi contadini.

E finisco: "Le Esperienze Pastorali" sanno di troppa foga e di troppa "inesperienza" giovanile per poter portare un positivo contributo alla soluzione della crisi della parrocchia. Il libro ha il merito di aver toccato alcuni problemi e di aver buttato all’aria alcuni cenci; ma è inquinato di troppa superbia ed è viziato da troppa sicurezza di sé e disprezzo degli altri per poter recare un messaggio validamente costruttivo ai sacerdoti che, con uguale generosità anche se con maggior silenzio e modestia, lavorano nelle ventiquattromila parrocchie d’Italia.

E non mi richiami, caro Padre, ai doveri della carità cristiana, perché è proprio pensando ad essa, ma in forma universale verso tutti i Confratelli del Sacerdozio, che ho scritto queste righe, non già in polemica con Lei ma a complemento -se permette- di quanto Lei ha così bene scritto nei quattro punti sottolineati.

Mi perdoni la franchezza, che non ho mai sentito come i questo caso così doverosa e nello stesso tempo così ingrata per me; e mi creda Suo devotissimo

Don FAUSTO VALLAINC

 

LETTERA PRIVATA A PADRE CENTI

di don Fausto Vallainc

7 ottobre 1958

Rev.mo Padre,

solo oggi, per motivi di assenza, ho la Sua del 1° ottobre, da Napoli. Non ho nessun motivo per rifiutare a Don Milani di "chiarire -su "Settimana"- le sue posizioni", e sarei felicissimo se veramente volesse riconoscere la sua parte di torto, come Lei ed io abbiamo riconosciuto la sua parte di ragione.

Naturalmente, in qualità di direttore di un giornale che credo serio, mi riservo di giudicare lo scritto di Don Milani e di rimandarglielo specificando i motivi del rifiuto in caso lo dovessi ritenere inadatto, per tono e per contenuto, a "Settimana". Troppe pagine del suo libro sono, ad esempio, non confacenti allo spirito di "Settimana", che è spirito di disciplina e di vero amore alla Chiesa.

Per quanto mi riguarda, non ho mai messo in dubbio le buone intenzioni di Don Milani: il suo libro però sta a dimostrare, con prova inoppugnabile, la sua errata impostazione di troppi problemi e la sua assoluta mancanza di "sensus Ecclesiae".

Attendo, dunque, che Lei decida quanto crede che sia il meglio per il bene di Don Milani e dei Sacerdoti che lo leggeranno su "Settimana".

Cordialissimi saluti in Cristo sacerdote.

(Mons. Fausto Vallainc)

 

LA REALTA’ DIETRO L’OVATTA

di Giorgio Chiaffarino

Il Gallo, Genova, 25 ottobre 1958

Non capita sovente, nell’uniformità della produzione libraria cattolica, in Italia, di imbattersi in un’opera tutta "impegnata", senza vuoti e soste, ad un tempo difficile e di estrema semplicità.

Difficile, al punto che offre mille possibilità di fraintenderla e di volerle far dire molto più di quello che intende dire, e perfino quello che non intende dire, al di fuori delle precise condizioni ambientali nelle quali è nata e ha tratto ragione di vita. E nello stesso tempo un’opera tutta semplice, scritta senza la minima preoccupazione di stile da un sacerdote e dai suoi parrocchiani, che si fanno leggere non già perché siano scaltriti ad usare la penna, ma perché dicono cose e fatti, e si esprimono con l’immediatezza, sia pure letterariamente incolta, del linguaggio popolare toscano.

"Esperienze Pastorali", di don Lorenzo Milani (Libreria Editrice Fiorentina), è un’opera di una vigoria, vorrei dire di una violenza, "che a tanta gente apparirà quasi tragica, e cupa, e nera, e insomma "disfattista"", come fa presente monsignor D’Avack, Arcivescovo di Camerino, nella meditata lettera di prefazione che precede il testo.

In succinto si tratta della storia di un paese, e dell’azione pastorale di un sacerdote, di fronte alle difficoltà che assediano oggi la Parrocchia, massime se questa è in grande prevalenza formata da contadini e da operai.

Il paese è un paese reale, San Donato, non lontano da Prato, in Toscana; un paese di 2000 anime, mezzo di operai e mezzo di contadini, come accade in tanti altri paesi e parrocchie italiane, che sono in campagna, ma gravitano nell’orbita della vicina città.

L’Autore -un giovane sacerdote, viceparroco in quella terra- si vale di moderni mezzi di indagine e di documentazione, e riesce a darci una visione precisa e completa della situazione.

La parrocchia, e i parrocchiani, e la fede, e i sacramenti, la ricreazione, l’istruzione civile, l’indirizzo politico, l’esodo dalla terra avara, le case, il lavoro sono resi sulle pagine nei loro rapporti reali. La valutazione è severa, ed impressa senza mezzi termini; e questo è raro oggi, abituati come siamo a considerare a volo d’uccello queste cose, e a parlarne ovattando le magagne, allo scopo -si dice- di non disanimare i cristiani timorati, e di non "fare il gioco" di quei tanti battezzati che si sono stancati dell’ovatta, e sono passati nel campo dei non timorati.

Dietro l’ovatta, la realtà è quella che è. Don Milani la guarda in faccia, risoluto a vederci chiaro: la realtà dell’appartenenza alla Chiesa gli dà quel coraggio che uno, da sé, "non si può dare". Parla chiaro, e a volte parla duro. Rifiuta di combattere il nemico sul suo stesso terreno, in una concorrenza illusoria, e senza speranza. Di fronte alla scristianizzazione progressiva del suo gregge non se la sente di rifugiarsi in una difesa, e per quanto possibile tranquilla, addossando tutte le colpe sulle spalle del cosiddetto "nemico".

Lo fa riflettere, prima di tutto, la grande inferiorità dei suoi operai e dei suoi contadini, sul piano del sillabario e della tavola pitagorica. Si tratta di una insufficienza culturale che rode alle radici l’autonomia di giudizio di tanti contadini ed operai in Italia. La macchia è grossa: sono cinque milioni di analfabeti. Ma quanti sono gli analfabeti "di ritorno", coloro che a scuola ci sono andati, ma poi non hanno più il tempo e i mezzi per continuare a coltivarsi? Sì, la vita dello Spirito. Appunto perché qui è l’essenziale don Milani si batte, e perché non può patire che l’essenziale manchi alla sua gente. Sa benissimo che "non di solo pane vive l’uomo", ma sa che è necessario anche il pane, un minimo di pane -il pane quotidiano, il pane del lavoro, il pane della cultura, il pane dell’amicizia, il pane del rispetto, il pane della giustizia, il pane della libertà, il pane della carità- per riuscire a comprendere pienamente che l’uomo non vive di solo pane. La vita soprannaturale è la realtà che dobbiamo "cercare per prima", ma non è la negazione o la soppressione della vita naturale.

Don Milani ha cercato l’incontro con la sua gente, al di fuori di tutti gli schemi prestabiliti, sul terreno naturale della "scuola popolare". Attraverso la dedizione e l’amicizia sul piano naturale, i suoi hanno riconosciuto e ritrovato in lui il sacerdote del soprannaturale. Il libro è un poco la storia di questo incontro. L’entusiasmo affiora, qua e là, e la polemica contro altri indirizzi. Ma io non voglio pensare che entusiasmo e polemica mirino a giudicare gli altri, a far l’apologia di se stesso. "Come tutte le diagnosi, anche i rimedi valgono "hic et nunc"", qui, in questo momento, avverte egli stesso, ad un certo punto. Ed è troppo facile trasportare sul piano generale -come qualcuno ha fatto- soluzioni particolari, per esercitarsi poi in una critica che riesce molto facilmente contro bersagli inventati apposta per muovere da soli verso il proiettile.

Qualche spunto può non trovarmi d’accordo. Per esempio, la recisa avversione al "divertimento" (quale mezzo di concorrenza per tenere le pecore del gregge), anche se personalmente l[a] condivido di massima, può non sempre essere giustificata. Ma nelle pagine di don Milani ci leggo soprattutto, e mi fa un gran bene, il dolore sincero ed accorato di un pastore, scopro il cuore di un prete, e la carità che lo anima. Anche quando mi trovo di fronte a quelle affermazioni crude che mi ricordano taluni passi dei Padri della Chiesa, e che così esplicite non udivamo da un pezzo, preoccupati come siamo delle conseguenze sul piano tattico. Recentemente due sacerdoti mi dicevano di aver avuto uno scossone alla lettura del libro, e di esserci rimasti perfino male, lì per lì; ma ora, a botta guarita, mi dicono che non potranno mai più non accostare il problema nella sua estrema gravità, anche se si guarderanno bene dallo scrivere un libro come questo, e dall’imitare senza riflettere l’esperienza di San Donato.

In fondo le valutazioni dure, ma vere, non deprimono e non abbattono; pongono invece in termini indilazionabili la necessità di una azione che ci impegni senza riserve. Perciò la necessità preliminare di una trasformazione che cominci prima di tutto da noi stessi, e ci faccia sempre più persuasi al ricorso di quelle fonti spirituali che sole possono dare la pazienza, e il coraggio, e il senso della misura, e lo spirito di carità, che sono e saranno sempre più indispensabili per vivere e operare cristianamente nel mondo di oggi.

 

DON MILANI AL ROGO

di Luciano Bianciardi

Critica Sociale, Milano, 5 gennaio 1959

Dopo l’intervento del Santo Uffizio che ne vieta (non si sa con quale diritto) la lettura, la vendita e la ristampa, il libro di don Lorenzo Milani è diventato il fatto del giorno, e se ne sta occupando ampiamente anche la stampa quotidiana. E’ ragionevole pensare che, senza l’intervento dell’autorità ecclesiastica, di quest’opera, Esperienze pastorali, non avrebbero parlato che pochi gruppi di cattolici di sinistra, e qualche attento lettore specializzato, soprattutto toscano.

Un libro con quel titolo, per nulla indicativo del contenuto e assai poco invitante, che reca l’imprimatur dell’arcivescovo di Firenze, e una lunga prefazione firmata da quello di Camerino, un libro stampato (egregiamente, diciamolo subito) da una casa editrice pressoché sconosciuta, la Libreria Editrice Fiorentina, poteva suscitare, nel lettore "laico", al massimo, una sorta di incuriosito scetticismo. Eppure poteva bastare la curiosità, senza intervento del Santo Uffizio e dell’Osservatore Romano, perché il libro rivelasse, ad apertura di pagina, tutto il suo valore: un libro intelligente, articolato, vivace, tenuto su da un rigore evangelico insolito dalle nostre parti, rigore che ne costituisce la forza, l’ossatura, e forse anche il limite.

Libro frammentario e disperso solo in apparenza; libro collettivo: don Lorenzo Milani ci dà, in ultima pagina, i nomi dei collaboratori; sono contadini, meccanici, disoccupati, donne di casa. E’ vero: pagina per pagina si passa dalla ricerca storica all’indagine sociologica, dall’oratoria edificante alla volgarizzazione dottrinale, all’autobiografia. Ci sono pagine di grande pregio letterario: la storia di Mauro, giovane operaio tessitore, che don Milani racconta nella parte finale ("Lettera a don Piero") è detta con tale commossa abilità che il lettore non se ne stacca, e ci trova, risolta in termini narrativi, la teoria del plusvalore. (Tra parentesi, quanti divulgatori del socialismo, oggi, saprebbero fare altrettanto bene?) Ci sono naturalmente notizie parrocchiali: frequenza al catechismo, a messa, all’eucarestia, atteggiamento dei fedeli in chiesa, alle processioni, alle funzioni serali, comportamento dei giovani rispetto al matrimonio, dei ragazzi di fronte alla ricreazione (un problema su cui don Milani insiste a lungo, polemizzando con il suo continuo, magari assillante rigore evangelico, contro il "ricreazionismo" dell’Azione Cattolica). E subito, dal ristretto angolo visuale della pieve (quella di San Donato, presso Prato), l’attenzione si sposta sulla situazione sociale, culturale, politica del "gregge": quanti sono i fedeli che sanno scrivere, esiste una cultura extrascolastica, come si sono comportati contadini, operai, disoccupati, donne di San Donato alle elezioni politiche e amministrative? Che valore, formativo, informativo, deformativo, ha la stampa politica e non, compresa quella cattolica?

L’Autore sotto questo ultimo aspetto è assai severo: si veda per esempio con quale acume giornalistico indica e condanna precise menzogne di giornali cattolici, o polemizza sottilmente contro il linguaggio di tanta stampa del giorno d’oggi. Valga un esempio. Ecco uno stralcio di un giornale qualsiasi: "Si dà per certo nei ambienti governativi americani un prossimo rimpasto del gabinetto Eisenhower". E così don Milani prevede il commento dei suoi ingenui (ma fino a un certo punto) parrocchiani: "Cosa mai rimpasterà Ike quando va al gabinetto".

Ma la polemica contro il linguaggio dei tempi nostri, falsamente "tecnico", astratto, contratto, americaneggiante, la troviamo implicita in tutta la prosa dell’autore. Il quale non disdegna di far ricorso al grafico, alla tabella, a tutti gli accorgimenti insomma che servono per la rilevazione sociologica. Ma lo fa sempre traducendo tutto in una lingua accessibile, parlata, addirittura contadina; sì che in certi casi al lettore "colto" viene il dubbio che, dietro, ci sia il gusto, ironizzato, di un vezzo letterario. Per esempio: quando analizza l’orientamento politico dei suoi parrocchiani, don Lorenzo traccia il suo bravo disco, e lo divide in tre settori, con queste didascalie: "D.C.; In partiti condannati; Un piede in due staffe". Oppure quando esamina i risultati scolastici dei suoi ragazzi, li divide fra "I 7 figli dell’intellighenzia" e "I 130 figli dei disperati".

Un’intera parte -quasi cento pagine- costituisce uno studio approfondito sullo spopolamento della campagna attorno a San Donato. Fra l’altro l’autore ha ricostruito dal 1670 ad oggi, tutti i trapassi di affittanza dei poderi, ha raccolto testimonianze di contadini ed ex contadini; e conclude proponendo una drastica legge. Vediamola: "Art. 1 - La terra appartiene a chi ha il coraggio di coltivarla. Art. 2 - Le case coloniche appartengono a chi ha il coraggio di starci. Art. 3 - Il bestiame appartiene a chi ha il coraggio di ripulirgli ogni giorno la stalla. Art. 4 - I boschi appartengono a chi ha il coraggio di vivere in montagna.".

Chi legge, comincia a questo punto a comprendere i timori del Santo Uffizio; se ne accerta quando, dopo l’ampio esame che don Lorenzo ha condotto di questo specimen di realtà italiana, trae le sue conclusioni per ciò che riguarda il compito del clero. Tre le sue alternative. Prima: impegnarsi a fondo, "buttar giù tutto. Eliminare il predominio del potere economico da qui a stasera. Sostituirlo col dominio di una legge morale che ponga i diritti di Dio e dell’uomo al disopra di ogni diritto terreno e neghi radicalmente il diritto di possedere se il possedere dell’uno dovesse sminuire il diritto di un altro alla vita o alla casa". Seconda: ["]tornare alle fonti evangeliche, abbandonando ogni attività terrena". Terza alternativa: separare la responsabilità dei cattolici laici da quella dei religiosi, i quali ultimi dovrebbero informarsi a un ideale cristiano "così alto e puro da non piegarsi mai alla ricerca terrena del "possibile", del "prudente", del "minor male", delle esigenze della "sana economia"".

Queste conclusioni non possono non far paura, non soltanto alle gerarchie ecclesiastiche ed ai dirigenti del partito cattolico al potere, ma anche a molti "laici" nostrani, che cattolici però son rimasti nel costume e nella mentalità. A tutti costoro fa paura il minimo allarme di un’insorgenza, in campo cattolico, di un moralismo nuovo, problematico, impegnato, pensoso, "eretico" in una parola. Un moralismo che noi non accettiamo nei suoi fondamenti dottrinari, ma che tuttavia auspichiamo di veder sorgere tra chi accetta la dottrina cristiana, e con il quale siamo certi di poter discutere con reciproco frutto.

CRONACHE DELLA STEPPA

di Ignazio Silone

Tempo presente, marzo 1959, pagg. 173-177

Chi abbia un serio interesse ad aggiornarsi sullo stato morale del popolo (se non per altro, dato che periodicamente ancora ci si ripete, come rimedio a tutti i mali: andiamo al popolo, ritempriamo il nostro spirito al contatto dell’anima popolare) farà bene a studiare con attenzione e senza pregiudizi polemici la monografia che don Lorenzo Milani ha dedicato alla sua parrocchia di San Donato, presso Prato in Toscana. E’ vero che la moda delle inchieste sociologiche, sorta fra noi in ritardo rispetto all’estero, ci ha già fruttato in questi ultimi anni alcuni pregevoli saggi; ma, a nostro parere, nessuna delle indagini precedenti ci aveva ancora offerto una visione, paragonabile a questa, della vita d’un piccolo centro di provincia, descritta nelle sue condizioni materiali e controllata dall’interno, fino nel segreto delle coscienze.

Il punto sul quale ora vorrei insistere è però questo: benché don Milani ci riferisca le sue esperienze pastorali e ci parli prevalentemente, con ricchezza di dati e commenti, della partecipazione dei fedeli al catechismo, alla messa, ai sacramenti, il suo scritto ci riguarda tutti -credenti, agnostici e atei- e mi sembra ridicolo cercarvi materia per una facile polemica anticlericale, dal momento che vi è messa in causa una realtà assai più vasta.

A giudicare dal suo libro, questo don Milani dev’essere un buon cristiano all’antica, che ha preso sul serio la sua vocazione sacerdotale. Alcuni suoi riferimenti ad esperienze francesi mi fanno pensare che anche lui abbia usufruito di quella benefica influenza e appartenga a quella diocesi ideale dei cattolici che potrebbe chiamarsi cattolica gallicana. Il maggior pregio dell’inchiesta di don Milani è senza dubbio nella sua lealtà. Egli non esita a polemizzare coi suoi confratelli sul significato delle statistiche concernenti la maggiore affluenza dei fedeli alle cerimonie e alle feste religiose: si tratta -egli dimostra- di fenomeni meramente esteriori, con assenza quasi costante di partecipazione e attenzione intima. Può egli mettere in dubbio che il potere del prete sia realmente aumentato? No: egli riconosce, ad esempio, che la semplice presenza del prete nelle scuole dello Stato, quale insegnante di religione, e la sua influenza in materia di esami, premi, vacanze collettive, borse di studio, ha prodotto una maggiore affluenza di ragazzi nella vita parrocchiale. Ma il catechismo che essi vi imparano -egli ci avverte- non lascia tracce notevoli al dilà della prima adolescenza. Insomma, malgrado il preteso rifiorimento dello spirito religioso nel popolo, è ancora giudizio comune che la fede religiosa sia robetta da donne e bambini, cioè consolazione sentimentale di esseri deboli.

In generale, si può osservare che il distacco mentale dei ragazzi dalla madre e dal prete coincide con il loro primo accesso ad una attività produttiva. A meno di non considerare le gazzette sportive come portatrici di una nuova fede, nella mente dei ragazzi, quanto a idee generali, subentra allora il vuoto. E, già si sa, il vuoto dà leggerezza e agilità. Così, l’eventuale frequentazione ulteriore della chiesa, da parte dei baldi giovani, nei giorni di festa e nelle occasioni solenni della vita familiare, intercalata da quella della sede comunista, non trova ostacoli di coscienza. Si va in chiesa per abitudine, per convenienza, per rispetto umano: sono rari i fedeli presenti alle funzioni del culto con un minimo di raccoglimento.

I vecchi? Sono i peggiori. I vecchi -ci informa don Milani- sono inerti nella loro morta tradizione. Essi usano ancora confessarsi una volta all’anno, ma col più ostentato sacrilegio, cioè facendo intendere al confessore (che li conosce personalmente) di contentarsi di udire che, sì, hanno talvolta bestemmiato, ma di non presumere di andare più in là con domande su peccati più gravi che spesso sono di pubblica notorietà. Qui si parla naturalmente di San Donato, e sarebbe temerario generalizzare; ma vi sono, nel libro di don Milani, scene riprese dal vero che appartengono alla vita di tutte le parrocchie. Vi siete mai chiesti, entrando in chiesa magari casualmente, per ammirarvi un’opera d’arte, perché gli uomini che assistono alla messa restino regolarmente nei posti vicini alla porta? Malgrado la naturale pigrizia, essi evitano di sedersi sulle panche -ci spiega don Milani- per non essere imbarazzati sulle posizioni da prendere nelle varie fasi della liturgia: rimanere seduti durante la consacrazione parrebbe disprezzo, inginocchiarsi bigotteria. Non volendo mostrarsi né oltraggiosi né docili, restano scomodamente in piedi. (Sono gli stessi che, per disputarsi un posto a sedere nel cinema o nella corriera, sarebbero capaci di fare a coltellate).

Molte altre osservazioni di don Milani possono parere futili, ma nessuna è priva di significato. Ad esempio, la parrocchia di San Donato possiede alcuni preziosi candelabri di legno, che vengono messi attorno al tabernacolo, nelle grandi funzioni eucaristiche, per onorare il Cristo; ma essi sono dorati solo nella faccia che guarda il popolo e non in quella rivolta al tabernacolo. Proprio come s’usa a teatro. E lecito chiedersi: quei cattolici credono nella reale presenza eucaristica? [a questo punto, nel testo manca una riga; n.d.MM] lo. Malgrado ciò, nella Chiesa si è trovato un umile parroco che, senza oltrepassare la sfera dell’ortodossia dogmatica, e stigmatizzando solo lo sfacelo del costume, ha osato dire la verità; mentre nel PCI non si è udito ancora nessuno. Non resta che da prenderne atto e dedurre che, tra i funzionari comunisti, il disprezzo verso il ruolo della coscienza delle masse nel processo rivoluzionario è ormai generale e profondamente radicato.

Contro corrente

Scrive don Milani: "Voler bene al povero, proporgli di metterlo al posto che gli spetta, significa non solo crescergli i salari, ma soprattutto crescergli il senso della propria superiorità, mettergli in cuore l’orrore di tutto ciò che è borghese, fargli capire che soltanto facendo tutto il contrario dei borghesi potrà passare loro innanzi e eliminarli dalla scena politica e sociale" [Esperienze pastorali, pagina 105]. E in un’altra pagina: "Molti giovani preti sono riusciti, per mezzo della ricreazione, a farsi voler bene da tutti. Sul principio la cosa mi turbò molto, ma ora ci ho ripensato: dov’è scritto che il prete debba farsi voler bene?" [pagina 145].