Capitolo IX°

Gli insulti dell’estrema destra

Un’antologia di scritti su Milani sarebbe apparsa decisamente incompleta, se non avessimo qui dato conto anche delle critiche rabbiose a lui rivolte da parte di autori collocati politicamente all’estrema destra. Critiche rabbiose, abbiamo detto, ma forse non è che un eufemismo: si tratta quasi sempre di insulti e spesso di minacce, neppure tanto larvate.

E’ Giano Accame a recensire a suo modo Esperienze pastorali, nell’ottobre ’59, definendo il Priore "il mostro in gonnella", il quale -a proposito dell’episodio di Mauro e del Baffi (pseudonimo che nasconde un piccolo industriale pratese)- "non trascura di recarsi a piatire piccoli favori proprio presso la gente ch’egli vorrebbe fare scomparire".

In Milani "c’è qualcosa di subdolo, una sgradevole doppiezza" e "in tutte le sue pagine si avverte lo squilibrio nervoso". Ed il libro di questo "prete matto" non è che una "quasi incredibile raccolta di brutte cattiverie e di sciocchezze".

Dopo la condanna del Sant’Uffizio ad Esperienze pastorali, Accame saluterà con gioia la fine della "breve fortuna" del libro -con questo rivelandosi però ben poco preveggente…-, ma confuterà peraltro la pretesa dell’Osservatore Romano di far passare la concessione al libro dell’approvazione ecclesiastica (il nihil obstat) come frutto di "tutta una serie di equivoci", e citerà a proprio sostegno anche alcuni brani della prefazione di Monsignor D’Avack.

Con l’articolo di Attilio Baglioni, lo scenario si sposta sulla lettera da Barbiana ai cappellani militari in congedo della Toscana.

Milani è un "parroco né santo né eroico", e si auspica che questo "sciagurato prete" ed i suoi compagni di "malafede", don Borghi e don Balducci, "questi falsi pastori e questi aberranti sacerdoti siano messi in grado di non avvelenare ulteriormente il popolo che è loro affidato, che siano fatti tacere".

Sul modo di ottenere tale silenzio, l’autore non si pronuncia, lasciando che a parlare siano le numerose lettere minatorie giunte in quei mesi a Barbiana.

Il 7 novembre l’argomento viene ripreso sul quotidiano filofascista di Napoli, sul quale Antonio Pugliese, che scrive commentando la Lettera ai giudici, rincara la dose, scrivendo che è "pazzo, dunque, ed ignorante il nostro don Lorenzo Milani. Ed anche mascalzone […], un cialtrone in pantofole, un maniaco del "dialogo", uno sporco disfattista", esplicitando -finalmente- il da farsi: Milani è "da togliere dalla circolazione. Con la galera o con l’ostracismo, non importa. E, se occorre, con un sacco di legnate", perché in casi simili "bisogna far ricorso alla "santa violenza"".

A rincarare la dose, Pugliese riprenderà l’argomento il 3 dicembre: "Si capisce come in certi casi anche la violenza trovi una sua giustificazione. Che essa poi consista in una camicia di forza, nell’isolamento o nei pedatoni nel sedere la sostanza non cambia: con il verme che cerca di guastargli il raccolto il contadino non può fare complimenti".

Domenico Magrini recensisce, anch’egli a suo modo, le Lettere di Don Milani Priore di Barbiana, cercando di rovesciare contro Milani, "un personaggio […] che tanto discredito ha gettato sul clero fiorentino", addirittura gli argomenti di padre Balducci (vedi Il carisma di don Milani).

A proposito delle Lettere scrive anche Pucci Cipriani, annotandone di passata le "tesi sorpassate e stantie", scritte in "un linguaggio pieno di albagia e privo di umiltà, che ci ricorda vagamente i tronfi discorsi dei gerarchetti del ventennio": e non nutriamo alcun dubbio che sull’argomento l’autore conservi ricordi ancora ben vivi e coltivati, oltre che, su questo singolo aspetto, tutto sommato veritieri.

 

LE RACCOMANDAZIONI DEL BUON CAPPELLANO

di Giano Accame

Il Borghese, Milano, 9 ottobre 1958

A Prato, dall’industriale Baffi, si presenta un giovane prete, alto, pallido, emaciato, dall'espressione ascetica, dai tratti signorili. È don Lorenzo Milani, il cappellano della vicina S. Donato, che viene a raccomandare la assunzione di Mauro, un tessitore diciassettenne la cui famiglia versa in condizioni di indigenza.

L’industriale resiste un pochino, spiega al buon cappellano che la sua azienda non è un ente di beneficenza, però poi si lascia vincere, esaudisce la preghiera, raccomandando a sua volta di spiegar bene al ragazzo che verrà assunto e pagato per lavorare e non per piantar grane, che gli scioperi non gli vanno a genio, che se sciopera verrà licenziato.

***

Il buon cappellano ottenuto il favore ritorna alla canonica, annunzia al protetto l'esito felice dell'intercessione, poi si ritira a stendere le considerazioni dolci, serene, della sua giornata di benefattore. Inzuppa la penna, rivolge gli occhi al Cielo per invocarVi divina ispirazione, si gingilla un attimo con le pallottoline del rosario, si concentra e scrive: "Penso all'art. 40 della Costituzione, il diritto di sciopero. Possibile che il Baffi, uno stupido piccolo privato, possa beffare così una legge che un popolo s’è data? Che un popolo ha pagata così cara: sangue, fame, guerra civile, elezioni tanto sofferte da ogni parte?! E poi non è una legge qualsiasi. È quella che Cristo attendeva da noi da secoli, perché è l'unica che ridia al povero un volto quasi d'uomo... Ma no, Baffi, non ti meriti che queste cose io te dica in faccia. Avresti troppa soddisfazione mettendomi per strada Mauro e ridendoti di me e dei miei sogni. Ti meriti piuttosto che io dica a Mauro che t'inganni quanto può. Che finga pei cinquanta giorni di prova d'esser come tu lo vorresti. E poi, scoccati quelli, non appena tu l'abbia assicurato, gli dirò che lo sciopero è nulla. Gli dirò che ti macchi d'acido uno stacco di gabardine, che ti versi la rena negli oliatori, che t’accenda una miccia nel magazzino... Te la farò pagare, te lo prometto in nome dei poveri che calpesti..."

Fortunatamente alcune esigenze tattiche della rivoluzione proletaria costringono il serafico pastore a rinviare le azioni di sabotaggio contro gli impianti industriali pratesi: la "base" infatti non risponde all'appello con l'aggressività sperata; la famiglia del giovane protetto, avendo urgente bisogno della busta paga, preferisce "tirare a campà".

Don Lorenzo Milani si rassegna a non lavare con gli acidi, la rena e gli esplosivi, la grave offesa arrecata all'ottavo sacramento dei preti operai, il "SS. Sciopero", e annota amaramente nel diario l'occasione mancata: "Il bene di mettere Mauro sotto i piedi del Baffi. Perché il Baffi possa ben calpestare la sua dignità di cristiano. Io ho dunque chinato il capo dinanzi al Baffi, non gli ho sputato in faccia, non gli ho tirato il calamaio. E a Mauro non dirò di lottare per i suoi fratelli. Gli dirò di essere vile e egoista. Gli dirò che importante è solo di riportar la busta a casa".

***

Gli industriali, secondo la vivace immaginazione di questo sacerdote, dovrebbero assumere i suoi raccomandati non per farli lavorare e guadagnare, ma per metterli nella miglior condizione di lottare entro le fabbriche per i loro fratelli. Cioè per esercitarvi attivamente il diritto di sciopero, soprattutto lo sciopero di solidarietà, in cui don Lorenzo Milani fiuta "il più puro profumo del sacrificio cristiano", paragonandolo con ardito lirismo "alla spada dei cavalieri medioevali che veniva consacrata sull'altare in difesa dei deboli e degli oppressi".

Anche il suo concetto dell'amore per il prossimo è estremamente dinamico e sociale: "Voler bene al povero significa mettergli in cuore l'orrore di tutto ciò che è borghese, fargli capire che soltanto facendo tutto al contrario dei borghesi potrà passar loro innanzi e eliminarli dalla scena politica e sociale".

Ma eliminarli come: a colpi di turibolo alla nuca? I particolari tecnici dell'eliminazione non sono ancora chiari; il mostro in gonnella comunque, nell'attesa di averli precisati, non trascura di recarsi a piatire piccoli favori proprio presso la gente ch'egli vorrebbe fare scomparire.

***

C'è qualcosa di subdolo, una sgradevole doppiezza nella sua condotta, ma don Milani non tiene a esser simpatico. Egli anzi confessa con un certo gusto autocritico: "Non splendo di santità. E neanche sono un prete simpatico. Ho anzi tutto quello che occorre per allontanare la gente. Sono stato solo furbo".

Del resto neppure "a Gesù o non è riuscito o non è importato" di farsi voler bene dalla gente.

L'importante è invece che "non bisogna essere interclassisti, ma schierati". E don Lorenzo Milani nel libro di Esperienze pastorali, da cui stiamo cogliendo questi fiori, dimostra ampiamente di essersi schierato.

La più impegnativa delle sue esperienze pastorali è stata la costituzione di una scuola parrocchiale dalla quale ha severamente escluso i benestanti, sostenendo "la necessità di ordinare le nostre scuole con criteri rigidamente classisti... Se aprissimo le nostre scuole, conferenze, biblioteche anche ai borghesi verrebbe a cadere lo scopo stesso del nostro lavoro". Seguendo un criterio di selezione alla rovescia, di cui del resto non mancano neppure alle camere e al governo alcune esemplari applicazioni, egli conia il motto che a suo avviso sarebbe degno di un vero partito cristiano: "Borse di studio ai deficienti e un branco di pecore da badare ai più dotati!". E conclude trionfante: "Questo è appunto ciò che abbiamo tentato di fare a S. Donato".

Don Lorenzo Milani è un prete di buona famiglia, che per motivi rimasti a noi ignoti ha concepito una avversione furibonda contro l'ambiente in cui si è formato. Forse la sua idiosincrasia per i divertimenti e i giochi l'hanno fatto schernire dai compagni. In tutte le sue pagine si avverte lo squilibrio nervoso del giovane isolato in un complesso di esigenze intellettuali insoddisfatte. Schifato e non compreso dal suo prossimo, si è rifugiato in una professione di apostolato verso gli umili, con chiaro senso di superiorità e frequenti reazioni di fastidio e di disprezzo verso tutto e tutti: i borghesi, gli studenti, i preti suoi colleghi e infine i poveri, nei confronti dei quali a volte manifesta sentimenti non diversi da quelli che si possono provare presso la società per la protezione degli animali.

Sui poveri montanari riproduce, dimostrando di approvarla, questa delicata dimostrazione di affetto di un prete di montagna, che gli scrive: "Me la prendo con la storia, coi secoli, col dislivello culturale, con la società che ne è responsabile e così riesco a perdonarli, a aver pietà di loro, a amarli come si amano dei poveri malatini, degli infelici da Cottolengo in cui si stenta a riconoscere il volto umano. Come si ama un animale domestico. Sì, m'è scappato detto ormai e lo ripeto: come animali inferiori".

Queste espressioni sono sintomatiche, sono rivelatrici di una mentalità che va studiata e meditata a lungo, giacché i cristiani sbandati alla sinistra troppo spesso riescono a giustificare il loro livore antiborghese attraverso l'alibi dei trasporti filoproletari. Il sacrificio dei primi potrebbe infatti compensarsi per assurdo con la carità esercitata nei confronti dei secondi, se questa non fosse un po' troppo pelosa, se non puzzasse lontano un miglio di zoofilia.

Purtroppo queste forme di estremismo non promettono nulla di buono ai ricchi, ma nemmeno ai poveri; sono soltanto contorcimenti morbosi di gente volontariamente incanagliata per assaporare in una cerchia più bassa della loro le ebbrezze di una certa superiorità.

E’ lo stesso gusto che attrae nelle file del partito comunista i disertori della borghesia; i quali ben si guardano dall'abbandonare una ereditata condizione di benessere (perché mantengono gelosamente lo stesso tenore di agiatezza) ma piuttosto disertano dai compiti, dai doveri, dalle responsabilità e dallo stile della loro origine.

Don Lorenzo Milani, zoofilo verso i proletari, presta ai borghesi gli stessi suoi sentimenti rovesciati e li dipinge come dei maltrattatori inveterati di animali. Lo studente, ad esempio. come tratta e considera un modesto fattorino di corriera? Per lo studente il fattorino "non è molto diverso da una mattonella del lastrico delle strade su cui ognuno può passeggiare da padrone e anche sputare." E le contesse, come si comporteranno allora le contesse? Ecco cosa fanno: "Un contadino tremante, col cappello in mano, annunzia alla contessa Digerini che ha avuto un bambino. ‘Coglioni!’ risponde la contessa infuriata..."

E non gli si stia a parlare dei professionisti: "Per Grazia di Dio nessuno viene a Messa tanto poco quanto il farmacista e il medico".

Per Grazia di Dio, capito? Gli indesiderati!

***

Penso che molti lettori ora si domanderanno se era veramente il caso di dare tanto spago a questa quasi incredibile raccolta di brutte cattiverie e di sciocchezze. Un prete matto può sempre capitare, ma, di fronte a una simile disgrazia, per un cattolico rispettoso della Chiesa e del suo prestigio, il partito migliore sarebbe non parlarne.

E non l'avremmo certamente fatto se il libro di don Lorenzo Milani non fosse stato pubblicato da un noto editore cattolico, se non fosse stato recensito con favori entusiastici sui giornali della Democrazia Cristiana, se non portasse il nihil obstat di un autorevole padre domenicano, Reginaldo Santilli, l’imprimatur dell’Arcivescovo di Firenze e una lunga prefazione elogiativa di monsignor Giuseppe D’Avack, Arcivescovo di Camerino.

***

Noi non vorremmo che a propiziare i favori di certi ambienti politici e ecclesiastici a quel libro fossero stati argomenti teologici di sapore un po’ ricattatorio, come questo: "Ammettiamo pure che il mio giudizio sia totalmente sballato rispetto a quello che darà Dio. Ma sta di fatto che il popolo e i ragazzi vedono con gli occhi esteriori come me e il loro giudizio assomiglia molto più al mio che a quello di Dio".

Che la voce del "popolo" stia veramente arrivando negli arcivescovadi e nelle sacrestie con più immediatezza e autorità di quella del Signore?

 

"NUOVI PRETI" E CONCORDATO

di Attilio Baglioni

La Folla, 28 marzo 1965

Le finestre della redazione di "Folla" si aprono sull’armoniosa facciata della chiesa di San Carlo ai Catinari; domenica scorsa il parroco padre Giuseppe De Ruggiero vi ha celebrato la messa d’oro ricorrendo i cinquantenario della sua ordinazione sacerdotale. Da tutto il popoloso quartiere che si stende attorno a Piazza Cairoli sono venuti i parrocchiani a festeggiare il venerando sacerdote barnabita e a testimoniargli la loro gratitudine per il mezzo secolo di zelo e di ministero profuso fra il popolo, in comunione perfetta con tutte le sue vicissitudini. Nel corso della solenne cerimonia è stato ricordato infatti che Padre De Ruggiero, prima di essere parroco di San Carlo ai Catinari, aveva seguito e confortato i suoi concittadini in tutte le guerre combattute dal 1911 ad oggi: era stato cappellano militare nella guerra italo-turca, nella prima guerra mondiale, in Africa Orientale e nel secondo conflitto mondiale, meritandosi due medaglie d’argento, una medaglia di bronzo e due croci di guerra al valor militare.

La figura di Padre De Ruggiero, la sua vita, il suo insegnamento sono stati ricordati come esemplare testimonianza di zelo sacerdotale e di amor di Patria; sono state lette alcune sue liriche ("Beato -mi ripete il Tricolore- chi vive per l’Italia e per lei muore"); tutta la celebrazione in onore di questo parroco eroico e santo aveva acquistato un esplicito sapore polemico nei confronti di un altro parroco né santo né eroico, delle cui gesta erano pieni in quei giorni i giornali e le cronache giudiziarie: don Lorenzo Milani, parroco di Barbiana. I casi di questo sciagurato prete sono troppo noti e penosi perché siano rievocati qui particolareggiatamente.

Don Lorenzo è uno di quei "nuovi preti" imbevuti di progressismo e di filo-marxismo che da tempo hanno dato scandalo con la loro condotta pubblica e con le loro propensioni marxiste. Sei anni or sono pubblicò un libro "Esperienze pastorali" che i comunisti hanno giudicato "audacissimo" e "spregiudicato".

L’ultima sua prodezza ha per tema gli obiettori di coscienza e i cappellani militari. Nel giorno della Conciliazione si erano radunati a Firenze i cappellani militari in congedo della Toscana: in un nobilissimo ordine del giorno essi avevano auspicato "la fine di ogni discriminazione verso coloro che sono caduti su tutti i fronti e con tutte le divise per il sacro ideale della Patria". Con un implicito riferimento a padre Balducci e ai suoi corifei sostenitori degli obiettori di coscienza, l’ordine del giorno concludeva affermando essere "un insulto alla Patria e ai suoi caduti la cosid[d]etta obiezione di coscienza che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà".

Alla lettura di questo documento le viscere marxiste di don Milani si sono ribellate e il focoso parroco ha scritto ai cappellani di Toscana una lettera che ha trovato compiaciuta ospitalità sui fogli del PCI. La lettera non è facilmente riassumibile, come non sono riassumibili i vaneggiamenti spirituali di un esaltato: in breve è tutta un’accusa di tradimento rivolta ai cappellani militari, una offesa continuata a tutti gli italiani che onorano la Patria e una volgare manata di fango sulle tombe dei caduti per l’indipendenza e il progresso della Nazione. Non soddisfatto di questa follia, padre Milani ha rovesciato torrenti di ingiurie e di oscenità su alcuni giornalisti che si erano recati ad intervistarlo, finché si è avuta anche lui, come il suo padre Balducci, una bella denuncia da parte di un gruppo di ex combattenti.

Un altro prete italiano, dunque, salirà sul banco degli accusati per difendere quello che un altro parroco, don Bruno Borghi, e altri cattolici di sinistra, hanno scelto come terreno di verifica dell’atteggiamento dei cattolici verso lo Stato. "Quella degli obiettori -è scritto in una lettera inviata da quei signori ai giornali- è una vocazione profetica e quindi non di tutti, ma essi sono necessari per riproporre a tutti noi l’ideale cristiano ed umano che ci impegna a lacerare certi rapporti politici, sociali, economici, ormai cristallizzati e spesso ingiusti per creare nuove strutture di convivenza umana".

Non impianteremo qui una discussione sulla obiezione di coscienza. Neanche sulla figura di don Milani e di don Borghi: per ciascuno di loro ci sono decine di padri De Ruggiero che restituiscono al cittadino intatta e vigorosa la presenza del sacerdote in mezzo ai suoi fedeli, nel raccoglimento della Chiesa e nel fragore delle battaglie. Vorremmo piuttosto considerare alcuni aspetti non secondari di tutta questa vicenda sconcertante.

Il primo attiene alla mortificazione che ci assale come cattolici quando vediamo contestato e compromesso il nostro rapporto di fedeltà allo Stato e non già per iniziativa polemica della parte laica (che lo Stato ha effettivamente costruito spesso in contrasto storico con la parte clericale) ma da coloro stessi ai quali è affidata la responsabilità della nostra guida spirituale. Dal Gioberti, al Manzoni, al Semeria, a Sturzo, a De Gasperi i cattolici italiani hanno maturato travagli angosciosi per collocare legittimamente la loro spinta religiosa nell’iniziativa civica; dopo non poche travagliate esperienze c’erano così ben riusciti da assumere essi, come tali, proprio in quanto cattolici, la responsabilità primaria della ricostituzione dello Stato, in armonica collaborazione con le forze laiche e risorgimentali, dopo gli sfaceli della seconda guerra mondiale.

Il conflitto di coscienza composto dalla Conciliazione e superato in questi ultimi venti anni nelle opere ci viene, invece, riproposto ora da uomini investiti dalla sacralità sacerdotale. Come non esserne turbati e mortificati se col pretesto della "obiezione" i reverendi Balducci, Milani, Borghi e compagni proclamano che i cattolici possono e debbono ribellarsi allo Stato nel momento stesso in cui lo Stato chiama il cittadino al diritto-dovere di servirlo in armi? Siamo dunque tornati al punto che il sentirci e il proclamarci cristiani fa di noi cittadini di secondo grado o comunque di grado diverso da coloro che si proclamano laici o atei?

Intendiamoci subito. Per noi questi interrogativi non si pongono neanche. Proviamo mortificazione e vergogna perché i Balducci, i Milani e i Borghi che ci ripropongono queste superate discrasie sono sacerdoti della nostra religione, ma nulla più. La nostra azione civica non ne viene minimamente scalfita, né il nostro impegno civile ne risulta sviato. Tuttavia proprio perché riconosciamo a noi responsabilità piena di cittadini nel rapporto di fedeltà verso la Patria, abbiamo il diritto, e più che il diritto, il dovere, di chiedere che questi falsi pastori e questi aberranti sacerdoti siano messi in grado di non avvelenare ulteriormente il popolo che è loro affidato, che siano fatti tacere perché la loro predicazione e il loro esempio non accrescano la confusione e non giustifichino l’ulteriore discriminazione contro i cattolici.

La predicazione e l’esempio di padre Balducci, di don Milani, di don Borghi e degli altri loro compagni rivestono infatti di legittimità i tentativi che in questi giorni si muovono da varie parti per ottenere la revisione dei Patti Lateranensi e del Concordato fra la Santa Sede e l’Italia. Qualcuno ha giustamente affermato che quei patti furono statuiti fra uno Stato forte e autoritario e una Chiesa altrettanto forte e autoritaria, il cui vigore unitario giustificava i privilegi che le erano concessi. Ma se ora la Chiesa mostra di essere incrinata da debolezze e da contraddizioni, come possiamo pretendere che le siano conservati gli antichi favori? Come, aggiungiamo noi stessi, cattolici, possiamo difendere le posizioni concordatarie della Chiesa, le sue richieste per l’educazione dei giovani, se proprio i giovani che lo Stato le cede vengono educati da certi suoi preti, contro la Patria, contro le sue tradizioni e contro i doveri del cittadino? Balducci, Milani, Borghi e compagni non giustificano forse tutti coloro che rifiutano condizioni particolari a favore della scuola libera, visto che questa scuola in mano a loro (si eserciti dagli schermi televisivi o dal pulpito, o dalle riviste politiche e dottrinarie) è una scuola di slealtà e di contestazione nei confronti della Patria?

Da altre parti è stato osservato che se i Patti Lateranensi obbligano lo Stato a farsi braccio secolare di discriminazione contro religiosi che abbiano contravvenuto alla disciplina ecclesiastica, non si vede il motivo per cui la Chiesa non debba essere richiamata dallo Stato a impedire, per lo meno, che suoi sacerdoti, in nome della sua dottrina falsamente intesa, contravvengano alle più delicate leggi civili. Anche questa legittima ritorsione è da mettere in conto ai padri Balducci, ai don Milani e ai don Borghi. I quali, si noti bene, mentre sobillano i cattolici italiani contro la Patria e le sue istituzioni democratiche, affiancati ai comunisti che le vogliono rovesciare, sono gli stessi che premono perché i cattolici dei Paesi d’oltre cortina, e il loro Clero, si adattino all’obbedienza più cieca e tartufesca verso il regime comunista illegittimamente impiantato, costituito contro la volontà della maggioranza e ordinato alla soppressione e alla sopraffazione di ogni libertà religiosa. Sono gli stessi, anzi, che animano e realizzano fra noi quel dialogo coi comunisti che dovrebbe condurre appunto "a lacerare certi rapporti politici, sociali, economici, ormai cristallizzati e spesso ingiusti per creare nuove strutture di convivenza umana".

E’ in questa contraddizione clamorosa che si misura e si verifica la loro malafede e la loro disponibilità "per subire il fascino di ideologie e l’impero di organizzazioni con cui non è possibile andare d’accordo".

Sono parole di Paolo VI, rivolte nel giorno di S. Giuseppe ai lavoratori delle ACLI e per essi a tutti i cattolici, perché non cadano nelle lusinghe e nelle tentazioni del "dialogo".

"Il dialogo -ha ammonito il Papa- non può essere una insidia tattica, non può essere per i cattolici una transigenza ai loro principi, e non deve risolvere l’apologia delle loro proprie idee nell’accettazione condiscendente ed ingenua di quelle avversarie".

Ma i padri Balducci, i don Milani, i don Borghi (e i La Pira, i Gozzini, i Bo, i Donat Cattin, i Moro e compagni) proprio questo hanno fatto. E lo hanno potuto fare perché le superiori autorità non si sono mosse in tempo per denunciare l’errore iniziale, per riparare i guasti di partenza, per dimostrare chiaramente e pubblicamente che quelli erano suoi figli degeneri e infedeli come soltanto ora "L’Osservatore Romano" li ha chiamati, in modo che fosse dissociata da loro la responsabilità e la solidarietà dei cattolici.

Noi abbiamo accolto don reverenza il monito severo dell’Osservatore e le ripetute ammonizioni del Papa, ma dinanzi alla pertinacia con cui il clero progressista e i cattolici filomarxisti si mantengono impuniti nell’errore, dinanzi al fatto che attorno a loro continuano a coagularsi gli interessi, i benefici e i privilegi dell’esercizio del potere in nome e per mandato dei cattolici, ci coglie una grande, mortificante ondata di sconforto.

Che non sia già troppo tardi?

 

LETTERA A MAROTTA

di Antonio Pugliese

Roma, Napoli, 7 novembre 1965

Caro Peppino,

c’è un momento in cui il mondo cessa di esistere: è il momento magico dell’amore. E c’è un momento in cui la pazienza non ha più motivo di esistere: è il momento in cui il discorso diventa impossibile, la logica va a farsi benedire ed il contraddittore ti tira gli schiaffi dalle mani. Nel primo caso, arrendersi all’amore è dolce; nel secondo caso, seguire il proprio istinto è doveroso. Seguimi per soli cinque minuti ed alla fine dimmi se ho torto o se ho ragione. La questione, come ti ricorderai, nacque nello scorso febbraio: i cappellani militari della Toscana emisero in quel tempo u comunicato nel quale dichiaravano di considerare "un insulto alla patria ed ai suoi caduti la così detta obiezione di coscienza che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà". Caro Peppino, queste cose non le affermava Antonio Pugliese il quale, per certi suoi trascorsi politici e professionali, può essere tacciato facilmente di nazionalismo, di supernazionalismo e di tutti gli ismi che tanto impressionano le adamantine coscienze che ci guidano e ci dirigono (alla rovina). Queste cose le affermavano numerosi sacerdoti i quali prima di aver partecipato alla guerra avevano frequentato il seminario e prima di essere stati ufficiali dell’Esercito erano stati militi di un’Idea. Gente insomma al di sopra della mischia; gente che per anni aveva visto aggredire, offendere, manomettere tutti quei valori per i quali migliaia di giovani erano caduti con la consapevolezza di adempiere un dovere per il bene della patria e per l’avvenire dei propri figli. D’altra parte, ai sacerdoti o si crede o non si crede. Nel primo caso, la loro stessa qualità di ministri di Dio li mette al di sopra di ogni sospetto; nel secondo caso è inutile discutere. Ora, appartenendo io alla schiera dei credenti, la discussione ha motivo di essere.

Dunque i cappellani militari della Toscana presero posizione, nel febbraio scorso, contro i cosiddetti obiettori di coscienza [manca una riga, illeggibile. n.d.MM] prete, un tal don Lorenzo Milani, parroco di Barbiana. "Aspettate ad insultare gli obiettori. Domani forse scoprirete che sono dei profeti. Certo il luogo dei profeti è la prigione, ma non è bello star dalla parte di chi ce li tiene... La sentenza umana che li ha condannati dice solo che hanno disobbedito alla legge degli uomini, non che sono dei vili...". Si è disputato, infine, sulla viltà o meno degli obiettori di coscienza e don Lorenzo Milani faceva un discorso capzioso, come se la condanna degli obiettori non contenesse implicita la definizione della viltà. Ed infatti: se una corte condanna un imputato di furto, implicitamente quella condanna lo definisce ladro. Questa ed altre facezie del genere conteneva la replica di don Lorenzo, ma la magistratura tagliò corto e lo incriminò per apologia di reato. La causa si sarebbe dovuta dibattere nei giorni scorsi, ma il parroco di Barbiana non si è presentato davanti ai giudici ed ha inviato una lunga lettera. Una ritrattazione? Una spiegazione? Una scusa? Mai più... Egli ha ragione. Anche i suoi allievi gli hanno dato ragione. "Abbiamo preso i nostri libri di storia e siamo riandati a cento anni di storia italiana in cerca di una guerra giusta... Non è colpa nostra se non l’abbiamo trovata...". Sentito, caro Peppino? Cento anni di storia italiana sprecati, tutta roba da pattumiera, da Porta Pia all’Amba Alagi, da Sciara Sciat al Don, dal Piave a Guadalajara. Gli obiettori di coscienza? Giovani "così diversi dai milioni di giovani" che non sanno quello che fanno e "si disinteressano di politica e di religione". Egli è un "educatore" e come tale continuerà ad insegnare ai giovani che "bisogna opporsi alle leggi quando esse siano contrarie all’umanità". L’obbedienza? In certe condizioni è solo "la più subdola delle tentazioni". E lui non si corregge, non ha niente da farsi perdonare, il suo pensiero è giusto, egli insisterà: "Spero che mi assolverete... ma non posso fare a meno di dichiararvi esplicitamente che seguiterò ad insegnare ai miei ragazzi quello che ho insegnato fino ad ora, cioè che se un ufficiale darà loro ordini da paranoico hanno solo il dovere di legarlo ben stretto e portarlo in una casa di cura...".

Ecco, Peppino mio, come a volte la violenza può trovare una sua giustificazione. Qui io sono di fronte ad un pazzo, ad un ignorante e ad un mascalzone. Posso discutere con un individuo del genere? Che egli sia pazzo, infatti, lo dimostra tutto il suo ragionamento. L’obiettore di coscienza, infatti, dovrebbe riservarsi il diritto di giudicare ogni atto, ogni parola, ogni gesto, ogni ordine del suo superiore, di stabilire se sia giusto o ingiusto, esatto o inesatto. E chi è mai quest’obiettore di coscienza? E’ forse Socrate? No. E’ un allievo di don Lorenzo Milani, ignorante della più crassa. Senza disturbare le grandi ombre del Risorgimento, chi è infatti in grado di giudicare se una guerra è giusta o non è giusta, sentita o non sentita? Un grande statista italiano che in fatto di psicologia dei popoli se ne intendeva un pochino più di cotesto Milani, ha lasciato scritto: "...la guerra del ’15-’18 fu dichiarata in un’atmosfera di vera e propria guerra civile, con una lotta senza quartiere fra neutralisti e interventisti. Guerra civile che continuò fino a Caporetto; ebbe una tregua nei dieci mesi della riscossa sul Piave e ricominciò immediatamente dopo, appena firmata la falsa pace di Versaglia. Sentita la guerra 1915-1918? Fu detta la guerra dei "milanesi" e nei reggimenti molti dovevano celare la loro qualità di cittadini della metropoli lombarda per non incorrere nelle ire e negli insulti dei"compagni". Parlino i superstiti volontari, se ne esistono -come è da augurarsi- ancora! I volontari furono vessati in ogni modo. Sei volontario? Dimostra, dunque, la tua volontà! Nemmeno gli irredenti che entusiasti erano venuti ad arruolarsi nelle file italiane, trovarono un ambiente che fosse in qualche modo fraterno. Uomini come Battisti e Sauro conobbero amarezze che solo il loro sconfinato amore per l’Italia riusciva a placare. Gruppi di volontari balzarono dalle trincee nell’ottobre del 1915, in un impeto di eroismo nel quale entrava anche un elemento di ripulsa e di esasperazione per l’ambiente ostile, refrattario nel quale essi erano entrati. L’esercito regio non ha mai avuto simpatia alcuna per i volontari. Già [illeggibile nel testo. n.d.MM] del 1915 il fiore del volontarismo italiano -da Corridoni a Daffenu- era stato falciato nelle trincee delle prime quote carsiche, oltre l’Isonzo. Probabilmente non vi erano più volontari nell’esercito italiano, quando dopo il martirio di Battisti, in data 14 agosto 1916, il generale Cadorna si decise a diramare una circolare stampata di due pagine, nella quale veniva raccomandato che i volontari non fossero oggetto di derisione, ma fossero rispettati dagli ufficiali e dai soldati... E’ legge storica che quando in una Nazione si determinano due correnti una delle quali vuole la guerra e l’altra la pace, quest’ultima resti sempre regolarmente battuta, anche se, come sempre accade, rappresenti da un punto di vista numerico la maggioranza. le ragioni sono evidenti. Coloro che si chiamano interventisti sono giovani, ardenti, essi costituiscono la minoranza dinamica, di fronte alla staticità della massa...".

Questo non avvalora la tesi di don Lorenzo Milani. Anzi. La guerra ’15-’18 è oggi riconosciuta "giusta", "sentita", "sacrosanta" perché è ritenuta complemento ed epilogo indispensabile di tutte le guerre del Risorgimento. Eppure anche allora c’era chi la riteneva ingiusta o, comunque, non sentita. Così come sempre, per ogni cosa, c’è stato il pro e il contro. Secoli di storia si accavallano, ragioni sociali si ramificano, nuove esigenze prorompono. E’ la guerra. Chi può dirla giusta o ingiusta? E, comunque, chi può ammettere il principio della disobbedienza, il soviet del giudizio? L’ammette forse la Chiesa alla quale appartiene il parroco di Barbiana? Può ammettere egli stesso che, in materia di fede, si possa discutere? Pazzo, dunque, ed ignorante il nostro don Lorenzo Milani. Ed anche mascalzone. Egli è, infatti, un irriconoscente. Dimentica o finge di dimenticare che molte guerre hanno avuto un sottofondo religioso, voglio dire che sono state fatte anche in difesa della religione. E come potevo immaginare, io legionario nella Spagna, io che laggiù ho lasciato un po’ della mia carne e del mio sangue anche per difendere i preti, come potevo immaginare che un giorno un don Lorenzo qualunque, un cialtrone in pantofole, un maniaco del "dialogo", uno sporco disfattista volesse insegnare ai miei figli che io che ho condotto al fuoco plotoni di soldati dovessi essere considerato "un paranoico da legare ben stretto"? Eh, no! Il pazzo è lui, e poiché i pazzi sono pericolosi non solo a se stessi, ma anche agli altri, egli è da togliere dalla circolazione. Con la galera o con l’ostracismo, non importa. E, se occorre, con un sacco di legnate. Perché vedi, Peppino mio, arriva un momento, come ti dicevo prima, in cui la parola non basta più, in cui bisogna far ricorso alla "santa violenza". Il discorso non regge, il dialogo non ha motivo di essere, il contraddittorio è inutile. Al verme che tenta di mangiare la mela non si possono tenere discorsi: bisogna prenderlo e gettarlo via, lontano il più possibile, Ne abbiamo ormai le tasche piene di questi falsi profeti, di questi sedicenti apostoli, di questi maniaci finti ingenui che continuano a vivere ed a prosperare solo perché quel pazzo di Mussolini ebbe la malaugurata idea di mettere il Crocefisso nelle scuole e i don Lorenzo Milani sulle cattedre. Noi siamo cattolici apostolici romani, ma riteniamo che Conciliazione e Patti Lateranensi stiano ormai contrabbandando merce di pessima qualità. Date a Cesare quel che è di Cesare, date a Dio ciò che è di Dio. A Dio noi diamo obbedienza e ossequio; pretendiamo per Cesare il massimo rispetto. Fuori dai piedi, dunque, questi don Lorenzo Milani che scavano nell’animo dei nostri figli e li avvelenano.

 

GROSSO EQUIVOCO DA DISSIPARE SULLE LETTERE DI DON MILANI

Anche l’"Osservatore Romano" ne è rimasto contagiato

di Domenico Magrini

Realtà Politica, Roma, 10 ottobre 1970

Capita spesso di vedere, anche nell’Osservatore Romano, ricordati, e magari citati a sostegno dell’ortodossia cattolica, personaggi, dei quali, a nostro parere, il meno che si possa dire in fatto di ortodossia, è che hanno idee molto ma molto peregrine. Valga al riguardo la presentazione delle Lettere di don Milani recentemente fatta sul giornale vaticano da Domenico Gregorelli. A costui, prima di scrivere questa nota, ho chiesto per telefono se veramente avesse letto quelle Lettere. La sua risposta enfaticamente affermativa ha cambiato in certezza il mio dubbio.

Di un personaggio come don Milani, che tanta nefasta influenza ha esercitato nella maturazione del "caso Isolotto", che tanto discredito ha gettato sul clero fiorentino, un sacerdote -e per di più di Firenze- non può farne una presentazione per sentito dire; e tanto meno affermare senza cognizione di causa che alla sua "bellissima autodifesa" è stato dato "l’infelicissimo titolo: L’obbedienza non è più una virtù". Quel titolo se lo è fabbricato don Milani con le proprie mani, e proprio in quella "bellissima autodifesa", là dove scrive (vedi Lettere, pag. 260) che bisogna "avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni".

A mio parere, don Milani fa parte di quella mandata di preti, secolari e regolari, che hanno in uggia lo Scupoli, l’Imitazione di Cristo e i dieci comandamenti di Dio. In questa mia opinione mi conferma anche l’autorità di P. Balducci, al quale, una volta tanto, faccio credito di essere interprete credibile della personalità di don Milani, e non solo per essere passato "attraverso tribolazioni non dissimili" alle sue ma per aver abbracciato e difeso la causa per la quale lui lottò.

Coglie dunque nel segno il Balducci quando con parola abusata e abusiva asserisce che "il carisma" di don Milani va individuato nella "fierezza dei propri convincimenti"; fierezza che gli consente di seguire solamente "l’obbedienza interiore alla voce della coscienza animata dallo Spirito Santo" contro ogni ingerenza del magistero della Chiesa e di ogni altra autorità esteriore. Per me il torto di costoro è di considerare la propria testardaggine come "voce della coscienza animata dallo Spirito Santo", come se lo Spirito Santo non abbia altro da fare che curare la loro coscienza e trascurare quella degli altri. Coglie pure nel segno P. Balducci quando, sempre sulla personalità di don Milani, scrive: "ho l’impressione che la sua ortodossia, formale e sostanziale, così frequentemente ostentata gli servisse come punto di appoggio" per mascherare il suo anticattolicesimo. Infatti "almeno a prima vista" può sembrare "ipercattolico", e "più volte sostiene con una specie di vanteria il privilegio che hanno i cattolici di avere non solo la parola di Dio ma la sicura mediazione della Chiesa"; ma in realtà "si vede bene che l’ostentato realismo dogmatico è in funzione di una polemica contro la difformità esistenziale della chiesa del Vangelo". E ne conclude che don Milani "è dunque contro il cattolicesimo edificante in cui l’essere della fede si trasferisce nei moduli divulgati e raccomandati dall’alto o nella retorica del credere".

Io ritengo vere e del tutto credibili queste ed altre gravi cose che P. Balducci dice di don Milani, anche se le ritengo del tutto disdicevoli per un sacerdote, a differenza di lui che al contrario le ritiene di grande decoro. Le mie riserve riguardano le perplessità dello Scolopio circa la pretesa "incomprensione delle prospettive politiche e umanistiche del marxismo" da parte di don Milani. In fatto di marxismo don Milani non era secondo a nessuno, neppure a P. Balducci. Tutti lo ricordiamo con il pallino che tutto il male di questo mondo fosse nel fascismo, mentre tutto il bene del marxismo. Nella astiosa diatriba contro i cappellani militari rivelò tanta arroganza e tanto livore da superare i limiti del più irrazionale fanatismo: e quando i cronisti di tutte le tendenze salirono a Barbiana a mendicare spunti e interviste per montare lo scandalo, egli aprì il suo cuore e la canonica a tutta la stampa marxista e agli alti papaveri comunisti, e allontanò tutti gli altri come rognosi fascisti. Aveva concepito un Galateo marxista per "sborghesire" il proletariato, ritenendo compito della sua "professione di maestro" di adoperarsi a "che tutto in questi giovani nuovi sia conforme alla società nuova di cui dovranno far parte (dalle idee e dagli ideali fino al modo di vestire e di stare a tavola)". E per riuscire meglio nell’intento non cercava lumi nel Vangelo. Ma mendicava cavilli da legulei marxisti per mettere alla berlina autorità e poliziotti in barba alla legge, e sollecitava istruzioni e collaborazione dai socialisti, dai comunisti, dalla Confederazione Generale del Lavoro e dalla Russia che gli spedì libri sull’argomento. Il Balducci lo dice "un guerrigliero" e "un classico della rivoluzione culturale". E io a buon diritto lo direi anche un classico della educazione sessuale e della diseducazione morale e cristiana, se è vero quanto scrive a pagina 170 delle sue Lettere, e cioè che "qui -a Barbiana- tutti, compresi i piccolissimi hanno avuto lezioni così esaurienti di anatomia (con libri di medicina a base di bischeri e bischeresse squarciati), di fisiologia (compreso il parto bene spiegato in due lezioni da un medico) e anche di "patologia"(tutte le aberrazioni senza eccezione, compresa una lezione commovente fatta da un ragazzo di vita che usciva allora di galera per sfruttamento, protezione e rissa) che non si scandalizzano più che di una cosa sola: lo scandalizzarsi".

C’è un’ultima cosa in cui P. Balducci mi trova in pieno accordo: nel negare "che don Milani fosse un modello di prete e nemmeno un modello di uomo". Le ragioni della mia convinzione sono le stesse che il Balducci adduce per farne un mito: e cioè perché don Milani "forse volle distruggere in sé la tentazione del modello e in ciò appartiene davvero alla nostra stagione che più o meno coscientemente ripudia i modelli, anche quelli della santità".

Va da sé che la "nostra stagione" non è proprio nostra, ma è dei don Milani e dei P. Balducci che si sono messi con tutta lena a distruggere il Cristianesimo e la Chiesa per edificare al loro posto una nuova religione, della quale -a detta di Lelio Basso- "nessun serio marxista oserebbe dire che è oppio del popolo".

La domandina che volevo porre, la lascio sulla punta della penna tanto mi sembra ovvia.

 

UN FALSO IDOLO: DON MILANI

di Pucci Cipriani

Relazioni, giugno 1971, pagg. 9-10

In un clima di generale disfacimento, in cui anche i santi sembrano sorpassati, occorreva alle sinistre ed al comunismo internazionale creare un mito, e lo hanno creato, portando come esempio Don Lorenzo Milani. La stampa "progressista" ha soffiato sul fuoco per alimentare la fiamma di questo sconcertante fenomeno, mentre la televisione ha proposto le sue tesi sorpassate e stantie dedicandogli decine di servizi; si aggiunga a tutto questo l'astuzia di alcuni editori che, dietro a questa incessante propaganda, hanno astutamente edito i suoi scritti, ricavandone cospicue somme. Basta pensare che le Lettere di Don Milani Priore di Barbiana sono arrivate alle centomila copie. Tutto questo perché nessuno, mai, ha voluto ridimensionare quelle tesi che, obiettivamente, non rappresentano nulla nel campo pedagogico e sociale. Anni orsono un famoso giornalista, anche lui entusiasta sostenitore di Don Milani, andò a Barbiana a visitare la così detta scuola, rimanendone sconcertato: affermò poi che Don Milani aveva più del tribuno che del Maestro. Leggendo gli scritti del parroco, o comunque da lui ispirati, ci troviamo di fronte ad un linguaggio pieno di albagia e privo di umiltà, che ci ricorda vagamente i tronfi discorsi dei gerarchetti del ventennio.

Don Milani aveva una sua filosofia spicciola che si rifaceva alla lotta di classe, a Marx ed Engels e, ci perdonino i suoi sostenitori, la sua prosa non era priva dell'influsso Nietskiano.

Per quanto riguarda le tesi di pedagogia, scopiazza Tolstoj, Cousinet, Agazzi, Dewej, Erikson e tutto il pragmatismo, con la risultante di arrivare ad un guazzabuglio dal quale difficilmente ci leviamo le gambe. Ma Don Milani era anche un prete, anzi, principalmente un prete, ed allora ecco il tentativo di cucire queste sue tesi al Vangelo, in una disarmonica unione tra materialismo e religione piena di contraddizioni macroscopiche.

Le teorie marxiste della lotta di classe vengono portate all'eccesso e si arriva a delle affermazioni che rasentano il paradosso: si scaglia contro tutti, perfino contro i sindacalisti colpevoli di vestire troppo bene perché -come afferma nelle lettere- "negli scontri per vertenze sindacali non si riesce dai vestiti né dalle maniere a capire quali sono gli oppressi e quali gli oppressori", da ciò egli deduce che "la classe operaia non ha ancora una coscienza di classe e tanto meno l'hanno i suoi capi". Si arriva dunque a proporre un vestito unico? Ma nemmeno questa è un'idea originale: l'avevano proposta i futuristi la tuta (?) sessant'anni fa.

Ma i critici, i giornalisti "a la page", hanno osannato e portato alle stelle la figura di Don Milani sacerdote ed educatore, prendendo per buone tutte le sue affermazioni. Senza voler cascare nel patetico vorremmo portare l'esempio di quella vecchia maestra che forse, ignara della vera personalità del Parroco di Barbiana, gli chiedeva di fare religione anche ai suoi ragazzi che si trovavano in una scuola di montagna confinante con la sua parrocchia. Ma Don Milani di fronte a questa richiesta dettata dalla fede, crede bene, come lui stesso afferma, "di farci sopra una risata" mandando "al diavolo quei bambini" perché -e sono le parole del prete- "se volevano le mie cure avevano a nascere cento metri più in qua e cioè entro i confini della mia parrocchia... E se lo diceva il Vescovo era lo stesso... Il Vescovo non mi rompe le scatole e io non le rompo a lui". Qualcuno potrà forse scandalizzarsi dell'atteggiamento tenuto da questo sacerdote e dal linguaggio usato nei confronti del suo Vescovo, ma del resto il suo agire non poteva essere diverso dal momento che riconferma la sua personalità, perché proprio Don Milani afferma di non aver bisogno di direttore spirituale.

E le affermazioni piene di sicumera continuano: si arriva persino ad accusare il Cardinale Ottaviani di far votare per i "Signori", forse dimenticando che lo stesso Ottaviani è direttore di un collegio, completamente gratuito, dove trovano ospitalità gli orfani; con la sola differenza che Ottaviani non ha mai propagandato la sua iniziativa piena di amore e di carità reputandosi, lui "porporato e Principe della Chiesa" il servus servorum Dei. Ma il Don Milani Show, il Don Milani televisivo, amava con "cuore singolare" non "universale".

Nella dinamica dei tempi moderni, si fa un gran parlare di "non violenza"; nel campo scolastico poi la violenza è stata condannata e ripudiata come metodo.

La violenza, invece, era una prerogativa della Scuola di Barbiana e i ragazzi venivano picchiati e maltrattati per i motivi più banali.

Quello di Don Milani è un modo di agire che ogni cattolico deve respingere perché basato su un autoritarismo avulso dai tempi, sorpassato, antistorico. Eppure i seguaci del Parroco di Barbiana, sempre pronti agli approcci televisivi, si atteggiano a paladini della "libertà" e del "progresso", affiancandosi a quella schiera di contestatori che non hanno nulla da proporre e fanno della violenza la loro unica bandiera. Fortunatamente, nonostante le montature della sinistra, operano ancora nella scuola e nella Chiesa persone che improntano la loro opera nell'amore cristiano. Conosco insegnanti non credenti, appartenenti a religioni diverse, anche militanti di partiti che non si proclamano cristiani, ma che consacrano la loro opera a favore dei giovani con abnegazione e amore. Questa schiera di educatori crede ancora nella scuola. Di fronte a loro non dobbiamo sentirci inferiori per il fatto che Don Milani abbia militato nelle file cattoliche, perché, l'esperienza della scuola di Barbiana non ci tocca: è improntata a una demagogia e ad un materialismo che non deve contaminare i credenti.