Capitolo VIII°

La polemica innestata da Vassalli

La polemica che dieci anni or sono riportò all’attualità della cronaca il ‘caso don Milani’, è qui documentata per sommi capi, a partire dall’articolo di Roberto Berardi (un ex insegnante e preside che scrive sulla rivista didattica di parte cattolica della bresciana La Scuola Editrice), che darà il via alle critiche, poi riprese e amplificate dagli articoli di Sebastiano Vassalli su la Repubblica, dove troverà ospitalità una parte rilevante dell’intero dibattito.

Alle dure -e talvolta infamanti- accuse di Berardi e Vassalli (che per molti aspetti ricordano quelle che a Milani venivano rivolte un quarto di secolo innanzi da fogli della destra come Il Borghese o il quotidiano parafascista di Napoli, il Roma), replicheranno in molti, moltissimi. Come sempre accade, la scelta antologica è necessariamente limitata, e può bene apparire discutibile o parziale.

L’articolo di Berardi su Nuova Secondaria, quello che dà inizio alla polemica, appare sul numero di aprile 1992 del mensile bresciano. Ad esso, l’autore ne farà seguire altri, in cui cercherà di spiegare e difendere le proprie affermazioni.

Nel febbraio ’93, egli pubblica Ancora su don Milani educatore, e vi scrive (dopo aver fatto un riferimento, non privo di veleno, ad Esperienze pastorali, libro che "ha difetti strutturali", anche se gli "resta [...] il merito" di aver affrontato "un argomento che in Francia era trattato da tempo") di aver "rilevato, nella Lettera a una professoressa, un atteggiamento puramente passionale, che ripudiava ogni esame razionale e ogni riscontro con la realtà dei fatti, e si esprimeva in un linguaggio che rifiutava il dialogo".

Dopo aver ricordato la "infondatezza" e la "assurdità di tante asserzioni della Lettera", Berardi ci tiene a ribadire che quella del Milani educatore, un’immagine "che i media hanno accreditato per anni", è, appunto, un’immagine e "non [...] una realtà accettabile".

L’articolo si chiude polemizzando (e qui forse un po’ meno maldestramente...) con Paolo Giuntella che, nel luglio del ’92, aveva recensito il libro di Berardi in maniera del tutto negativa su Il mattino di Napoli.

Notiamo innanzitutto che Vassalli non dà alcun credito alla genesi collettiva della Lettera, e lo fa con naturalezza, all’inizio senza accenni diretti, en passant, quasi che l’attribuzione fosse, per tutti, scontata: Milani ne è l’autore, prende carta e penna e scrive il pamphlet, pubblicato da "una non meglio precisata Libreria editrice".

Più avanti esplicita ancora meglio il concetto, chiarendo che "è fuori discussione che l’autore sia stato proprio lui", Milani.

L’articolo prosegue, dopo essersi riproposto di fare "una verifica puntuale e pacata", facendo proprie, ed arricchendole, le critiche tutt’altro che pacate del Berardi: la Lettera, "un libro-bandiera, più adatto ad essere impugnato e mostrato nei cortei che ad essere letto e meditato", è "un atto di calcolata falsificazione della realtà e di violenta demagogia"; fu un’autentica "mascalzonata", a cui si deve, in definitiva, la successiva crisi profonda della scuola italiana; mentre il Priore è "un maestro manesco e autoritario [...], un autocrate che non credeva nella pedagogia".

Nell’articolo successivo, Vassalli cerca di replicare al vespaio di critiche che i suoi attacchi a Milani hanno sollevato.

Egli ‘spiega’ come mai la Lettera fu una mascalzonata: essa "attribuiva tutti i mali della scuola ai soli professori": ma la spiegazione è parziale e sommaria come il giudizio, e non regge ad un’analisi anche solo un poco più attenta.

La motivazione che dà Vassalli, fa oltretutto di don Milani un bell’opportunista, che se la prende con i professori perché se "avesse davvero alzato il tiro contro l’istituzione scolastica e i suoi potentati, l’arcivescovo lo avrebbe costretto a fare le valige anche da Barbiana e gli avrebbe tolto anche quell’ultimo pulpito".

Delle numerose repliche a Vassalli, qui vorremmo riprenderne solo alcune tra le più efficaci.

Tullio De Mauro, che ha -contrariamente a Vassalli, da lui definito "palesemente incompetente al riguardo"- idee chiare e conoscenze fondate da uomo di studi e di scuola, sottolinea come già in Esperienze pastorali "c’era la stupefacente scoperta che lo Stato italiano, dalla legge Casati del 1859 in poi, poco o nulla aveva fatto per accompagnare, alle proclamazioni sull’obbligo scolastico, una reale politica di sviluppo dell’istruzione elementare".

In un’intervista al cronista di Repubblica, Geno Pampaloni ricorda l’attribuzione alla Lettera del Premio Prato e dice che "da quelle pagine emanava un insegnamento: la ricchezza degli uomini sta nella loro capacità di comunicare, nei modi di usare il linguaggio".

Franco Ferrarotti ricerca in Esperienze pastorali le premesse per "comprendere a fondo" la "prosa toscanamente secca, quasi ruvida" della Lettera. Nel libro del ’58, don Lorenzo "non condanna, non esalta, si limita a registrare, con una attenta, quasi umile subordinazione al reale, a ciò che accade, a ciò che ascolta e sobriamente trascrive. Alieno da ogni demagogico populismo, questo prete si sente che è accanto al popolo vero. Da questo punto di vista, il suo realismo è impressionante".

Infine, Gianni Vattimo, che interviene dalle colonne de La Stanmpa, ricordando che "al prete di Barbiana, Berardi, e Vassalli con lui, imputano di essere stato uno dei principali ispiratori della contestazione sessantottesca che ha puramente e semplicemente rovinato la scuola italiana", fa notare come "lo sfascio è cominciato davvero non quando le idee di don Milani, e altre simili, si sono messe in atto (non risulta che ci sia stata una riforma della scuola "modello Barbiana"), ma quando si è risposto alla contestazione con misure puramente "quietive", con rattoppi e compromessi escogitati per mantenere la pace sociale concedendo poco o nulla al rinnovamento".

DON MILANI, CHE MASCALZONE

di Sebastiano Vassalli

A venticinque anni dalla morte, si torna a parlare dell’autore di ‘Lettera a una professoressa’.

Ecco il ritratto inedito di un maestro improvvisato, manesco e autoritario

la Repubblica, martedì, 30 giugno 1992, pagina 36

A venticinque anni dalla morte, si torna oggi a parlare di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, uomo-simbolo della "contestazione" degli anni Sessanta e autore di quella Lettera a una professoressa che nel nostro paese ebbe fama non minore degli scritti del "Che" Guevara o di Marcuse, o degli stessi Pensieri del presidente Mao. Un libro-bandiera, più adatto ad essere impugnato e mostrato nei cortei che ad essere letto e meditato: ed infatti non furono molti, allora, quelli che si accorsero che la mitica "Scuola di Barbiana" cui veniva attribuita la paternità dell’opera era in realtà una sorta di pre-scuola (o di dopo-scuola) parrocchiale, dove un prete di buona volontà aiutava come poteva i figli dei contadini a conseguire un titolo di studio, e se non ci riusciva, incolpava i ricchi.

Un’esperienza didattica forse non proprio marginale, ma simile in definitiva a tantissime altre, si era così venuta arricchendo d’un ingrediente rivoluzionario: l’odio di classe, che il movimento operaio italiano aveva ripudiato già nell’Ottocento e che tornava a riaffacciarsi, dopo quasi un secolo, nella prosa elegante e un po’ nevrotica di un prete di origine borghese. Una prosa scarna ma non priva d’efficacia: a riprendere oggi in mano quel libretto di 166 pagine, stampato a Firenze nell’ormai lontano 1967 per conto di una non meglio precisata Libreria Editrice, due cose saltano subito agli occhi: la bravura di polemista dell’autore e la sua implacabile determinazione a demolire con ogni mezzo e con ogni trucco l’oggetto della polemica, cioè quella malcapitata "professoressa" in cui il nuovo Savonarola-don Milani riassume e per così dire simboleggia l’odiata scuola classista dello Stato italiano. Qualcuno forse, a tanti anni di distanza, ricorderà ancora che ciò che spinse don Milani a prendere carta e penna e a scrivere il pamphlet contro la professoressa fu l’insuccesso di tre suoi allievi di Barbiana, presentatisi come privatisti ad un esame in un istituto magistrale di Firenze: dove l’ignara professoressa li bocciò. La Lettera, intesa proprio come "vendetta" per quelle bocciature (pag. 139: "La seconda vendetta è questa lettera") venne poi attribuita ad un gruppo di ragazzi (pag. 5: "Gli autori siamo otto ragazzi della scuola di Barbiana") in omaggio alla moda allora imperante del lavoro di gruppo e per aggirare il fin troppo prevedibile diniego dell’arcivescovo Florit (definito da don Milani in una sua lettera "un deficiente indemoniato") a concedere l’imprimatur; ma è fuori discussione che l’autore sia stato proprio lui, il parroco, e che i ragazzi, al più, lo abbiano aiutato ascoltando le sue argomentazioni ed esprimendo la propria incondizionata adesione. Ciò che invece allora nessuno avrebbe potuto prevedere era il successo travolgente e incalcolabile di quella Lettera e di quella vendetta, che si sarebbe abbattuta come un uragano sugli insegnanti italiani della scuola di Stato, e nemmeno su tutti ma proprio sui migliori, cioè su quelli che -nonostante le molte difficoltà- cercavano ancora di dare un senso e una direzione al loro lavoro: un autentico cataclisma, che fece vacillare l’istituzione e danneggiò in modo irreparabile proprio i figli dei poveri, impossibilitati, per ragioni economiche, ad emigrare in massa (come i "Pierini" borghesi) nella scuola privata.

Chi vuole riandare con la memoria a quegli anni bui, tra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta, in cui la scuola italiana -già così tradizionalmente povera di strutture, di mezzi, di personale adeguato- rischiò di sgretolarsi dalle fondamenta ad opera dei moltissimi picconatori che brandivano come un’arma il "libretto bianco" di don Milani, può leggere ora uno studio di Roberto Berardi (Lettera a una professoressa. Un mito degli anni Sessanta, Shakespeare and Company, pagg. 97, lire 18.000), molto utile per ricostruire l’origine di quel mito e per sottoporlo a una verifica puntuale e pacata, con il senno di allora -Berardi è stato insegnante e preside negli istituti magistrali- ma soprattutto con il senno dei venticinque anni che sono trascorsi, dalla Lettera ad oggi.

Esperienze pastorali

Don Milani, comunque lo si voglia giudicare, era un maestro improvvisato e sbagliato. Berardi, che nella premessa del suo libro opportunamente dichiara di non volersi occupare del sacerdote, né del sociologo di Esperienze pastorali, ma soltanto dell’insegnante di Barbiana, non ha alcuna difficoltà a dimostrare la sua tesi su Milani maestro, analizzando i suoi scritti: in primo luogo quella Lettera a una professoressa, che, spesso travisata e citata a sproposito da persone che mai l’avevano letta, era però destinata a diventare il "manifesto" dell’antiscuola, negli anni delle lotte e delle masse e della "contestazione" scolastica. Tirato così fuori dal mito e riportato alle sue dimensioni terrene d’insegnante, don Milani ci appare oggi come fu davvero: un maestro manesco e autoritario (quanti dei suoi sostenitori d’un tempo hanno veramente saputo che nella Lettera c’è l’apologia della frusta, a pag. 82, e che a Barbiana erano considerati strumenti didattici "scapaccioni", "scappellotti", "cazzotti", "frustate" e "qualche salutare cignata"?); un autocrate che non credeva nella pedagogia -in nessuna pedagogia, all’infuori della propria- e che trattava con sufficienza e con sarcasmo chi si azzardava a parlargli di libero sviluppo della personalità degli alunni e di altrettali "sciocchezze borghesi". "La scuola", aveva scritto in una lettera del 1962, "deve essere monarchica assolutista ed è democratica solo nel fine cioè solo in quanto il monarca che la guida costruisce nei ragazzi i mezzi della democrazia"; e lo stesso principio era stato da lui sviluppato nella Lettera a una professoressa, dove anzi si delinea con molta chiarezza "una concezione collettivistica dell’educazione vista come indottrinamento": una concezione non dissimile -per chi ha ancora memoria di quegli anni- dai modelli educativi della cosiddetta "rivoluzione culturale" cinese.

Migrazioni bibliche

Berardi ci mostra poi come alla base del violentissimo pamphlet contro la professoressa fiorentina che aveva avuto l’ingrato compito di bocciare i tre studenti barbianesi, "preparati per il sindacato operaio ben più che per l’istituto magistrale", vi fosse un uso consapevolmente distorto e sapientemente mistificato delle statistiche sulla cosiddetta "mortalità scolastica", cioè sugli abbandoni della scuola dell’obbligo e della scuola superiore, negli anni dal 1950 al 1965. In quegli anni -come tutti sanno- si erano verificate le più grandi trasformazioni economiche e sociali della storia d’Italia, con migrazioni bibliche da Sud a Nord e dalle campagne verso le città; trasformazioni che si riflettevano in ogni genere di statistiche e che non potevano, assolutamente, essere ignorate nella loro lettura. Attribuire -come fece invece don Milani- tutte le cifre e tutti i mali della scuola dell’epoca all’odio delle classi privilegiate verso i poveri, alla perfidia degli insegnanti della scuola di Stato -gelosi custodi di quelle classi e di quei privilegi- fu un atto di calcolata falsificazione della realtà e di violenta demagogia che l’eccitazione sociale e politica dei tempi non basta a giustificare. Di più: fu una mascalzonata, per cui migliaia di insegnanti seri e preparati, che avevano quest’unico torto, di voler continuare a fare il loro lavoro nonostante la paga misera, le attrezzature insufficienti, gli edifici scolastici cadenti, i doppi e i tripli turni nelle grandi città, si trovarono da un giorno all’altro segnati al dito e braccati dall’ira delle folle: erano loro, la causa di tutti i mali e di tutti i dissesti della scuola italiana! Loro che si ostinavano a insegnare l’algebra e l’Eneide, e che non capivano che, per eliminare la differenza di classe, bastava promuovere tutti, indiscriminatamente! Chi ha memoria diretta di quegli anni, come l’autore di questo articolo, ricorda di avere visto la scuola di Stato pressoché allo sbando. Molti tra gli insegnanti più esperti e più preparati, che avevano raggiunto l’età pensionabile, se ne andarono; molti, impauriti o sinceramente desiderosi di seguire il naturale evolversi dei tempi, fecero autocritica. Trionfò l’ignoranza boriosa del "voto unico dequalificato" e della scuola "senza registri"; dunque si cercò di schiacciare l’orrendo mostro della "meritocrazia", e di mettere al bando le odiose "nozioni". (Ma che altro può trasmettere una scuola seria e dignitosa, se non, appunto, nozioni?). I posti lasciati liberi dai vecchi professori, esperti e infami, vennero occupati da gente appena uscita dall’università con il "voto politico": giovanotti che non erano in grado di insegnare l’algebra o di spiegare l’Eneide e che perciò, a loro volta, dovettero impancarsi a "maestri di vita".

Essendo mancato nell’anno stesso della Lettera, il 1967, don Milani poté assaporare soltanto in minima parte la sua vendetta e il suo trionfo sulla scuola di Stato. E chissà come si sarebbe comportato, se avesse davvero potuto assistere a tanta rovina.

Certo è che i suoi programmi scolastici, quelli che lui avrebbe voluto introdurre al posto dei programmi dell’odiata scuola borghese, erano quanto di più reazionario si potesse immaginare, tutti basati sull’utilitarismo e sul presentismo (Lettera a una professoressa, pag. 27: "Non c’è nulla sul giornale che serva ai vostri esami. E’ la riprova che c’è poco nella vostra scuola che serva alla vita") e, in definitiva, sulla "santa" ignoranza. Così, ad esempio, la matematica nell’istituto magistrale avrebbe dovuto essere abolita (pag. 118: "Per insegnarla alle elementari basta sapere quella delle elementari. Chi ha fatto terza media ne ha tre anni di troppo. Nel programma delle magistrali si può dunque abolire"), la pedagogia si sarebbe potuta ridurre ad una sola pagina (pag. 119: "Allora di tutto il libro basterebbe una paginetta che dicesse questo e il resto si potrebbe buttar via"), la filosofia sarebbe dovuta servire per scaldare gli animi (pag. 119: "Io tra un professore indifferente e un maniaco preferisco il maniaco. Uno che abbia o un pensiero suo o un filosofo che gli va bene. Parli solo di quello, dica male degli altri"); eccetera. Anche le apparenti novità, come la lettura del giornale, in realtà erano cose poco nuove: perché -ce lo ricorda opportunamente Berardi- il giornale era già entrato una volta nelle scuole italiane, al tempo di Starace e del ministro Bottai, per l’indottrinamento delle nuove generazioni; e l’uso che se ne era poi fatto a Barbiana non era molto diverso. (Lettera a una professoressa, pag. 27: "Proprio per questo bisogna leggerlo. E’ come gridarvi in faccia che un lurido certificato non è riuscito a trasformarci in bestie").

 

VASSALLI, IL TUO FURORE NON CAPISCO

E' profondamente sbagliato confonderlo con la contestazione del Sessantotto

di Tullio De Mauro

la Repubblica, Roma, giovedì 2 luglio 1992, pag. 35

Dopo l'articolo di Sebastiano Vassalli, molto critico nei riguardi di don Milani, pubblicato su queste pagine il 30 scorso, sono pervenute numerose testimonianze a favore del parroco di Barbiana. Abbiamo scelto l'intervento di Di Mauro e un ricordo di Saverio Tutino.

Pochi hanno conosciuto di persona don Lorenzo Milani. Quasi inevitabile, se si pensa alla sua vita breve (era nato il 27 maggio 1923, morì il 26 giugno 1967) e alla collocazione in parrocchie periferiche, prima a San Donato, poi a Barbiana, che in parte scelse in parte fu costretto ad accettare, per tener fede al suo obbligo di fedeltà alla Chiesa. Pochi: le persone care, i suoi alunni, i non molti che riuscivano a superare il difficile vaglio di ammissione a Barbiana, a patto che il Priore, come lo chiamavano ragazze e ragazzi suoi, li ritenesse in qualche modo utili alla scuola (come Gaetano Arfè e Mario Lodi, Mario Cartoni e Enzo Forcella, Adolfo Gatti, Oreste del Buono e Giorgio Pecorini). Pochissimi poi negli ultimi anni, quando don Lorenzo decise il "blocco continentale" e accettò di incontrare solo chi non avesse più che la licenza media, con due eccezioni: Mario Cartoni, "in considerazione delle molte ripetenze" e, se mal non ricordo, il professor Agostino Ammannati. Pochi, pochissimi, specialmente rispetto alle schiere di coloro che ne ricordano e amano il nome, la memoria, l'opera, in Italia e in plaghe più vaste: in quelle dove soprattutto si accampano il miliardo di analfabeti e il paio di miliardi di senza scuola, per i quali o, no, con i quali o, forse, dai quali don Lorenzo Milani parlava (tre quinti del genere umano); ma anche nei paesi e nelle università che contano, dove, tra i moltissimi che in Italia si sono occupati di educazione, don Milani (con Gramsci) è una delle poche voci prese in considerazione. Ho parlato di amare, e non di stimare e apprezzare, perché mi sembra che di questo si tratti, per chi serba memoria personale e diretta, o indiretta e "per scripta", di don Lorenzo Milani. Un amore dagli inizi difficili. Nonostante il chiasso della condanna del Sant'Uffizio, Esperienze pastorali, Documenti raccolti e annotati, quando nel 1958 apparve, e anche negli anni seguenti, fu letto da assai pochi (e tra i pochi, pur con qualche ritardo, da un liberale e studioso vero, Luigi Einaudi, che discusse e apprezzò il libro). Eppure là c'era già, concettualmente, l'essenziale di scritti successivi: là, tra i documenti pazientemente raccolti e annotati, c'era la stupefacente scoperta che lo Stato italiano, dalla legge Casati del 1859 in poi, poco o nulla aveva fatto per accompagnare, alle proclamazioni sull'obbligo scolastico, una reale politica di sviluppo dell'istruzione elementare. Al censimento del 1951, il sessantasei per cento della popolazione risultava privo di licenza elementare: fu il dato che scosse gli Amici del Mondo, e li spinse a riconquistare il tema della scuola alla loro riflessione, e che determinò una radicale svolta positiva, con la relazione di Mario Alicata, nella politica culturale del Partito comunista. Da questo stesso dato, mentre da San Donato riparava a Barbiana, doveva partire l'itinerario estremo di Lorenzo Milani. Ma pochi, allora, lo intesero. Qualche anno dopo, più risonanza ebbero i processi intentati contro don Lorenzo Milani per la Lettera ai cappellani militari e per gli altri scritti e atti raccolti poi sotto il titolo L'obbedienza non è più una virtù. La fama vera e larga, e larghe letture, don Lorenzo Milani se le conquistò solo con la Lettera a una professoressa, finito di stampare nel maggio del 1967. La Libreria Editrice Fiorentina aveva pubblicato fino ad allora cose di tutto rispetto (documenti su lotte sindacali fiorentine alla Galileo e alla Pignone, scritti di La Pira e di don Giulio Facibeni), ma da allora, travolta quasi dal successo del libro, diventò famosa. E stupisce che chi fa funzione di intellettuale e scrittore possa chiamarla "una non meglio precisata Libreria editrice" (ma forse è una fine ironia, nello stile di "quel tal Sandro, autor d'un romanzetto"). Don Milani, i suoi alunni, gli altri molti che collaborarono, denunziarono con una forza e un'efficacia che gli Amici del Mondo, che il grande Partito comunista non avevano saputo avere, il male antico della scuola di base italiana: che ancora quattro anni dopo la Lettera portava a terminare la scuola dell'obbligo meno del cinquanta per cento dei ragazzi (ventidue anni dopo la Costituzione che prescriveva l'obbligo, dieci anni dopo la media unificata che doveva attuarlo); che a venticinque anni dalla Lettera continua a non riuscire a portare alla licenza media l'8 per cento dei ragazzi, il 16 per cento nel Sud, il 30, il 35 per cento nei grandi centri urbani, dove regna il nesso terribile tra mancata scolarità e precoce manovalanza criminale. No, purtroppo la Lettera non fu abbastanza efficace: parlò a molti, ma i molti non hanno ancora saputo cambiare abbastanza la scuola di base. Così, a molti di noi accade di tornare a leggere la Lettera come repertorio di suggerimenti per il presente. Un articolo di Sebastiano Vassalli (in questo giornale del 30 scorso), ci fa sapere che "si torna oggi a parlare di don Lorenzo Milani", come se nel frattempo si fosse smesso, e che l'autore della Lettera era un "mascalzone". Sebastiano Vassalli è un bravo scrittore. Appartiene a quella che trent'anni fa Luciano Anceschi chiamò "una nuova generazione letteraria", quella del Gruppo 63. Ora non è più tanto nuova. In essa, Vassalli si è fatto onore, pagina dopo pagina, libro dopo libro. Più volte nei suoi scritti ha frugato, con occhio critico, nei fumi dell'ideologia. Un intero libro, Il neoitaliano, è dedicato a identificare e trafiggere le vacuità verbali (da "a tutto campo" e "bocconiano" fino a "ventre molle" e "zoccolo duro") che infestano il parlato e lo scritto di politici, giornalisti e altri esternatori. Ricordo questo perché il furore antiideologico è la molla che lo ha spinto a scrivere contro don Milani. E perché l'antiideologismo è una delle cose in cui Vassalli è veramente competente. L'altra è la scrittura. Ed è in queste due cose che l'articolo di Vassalli si avvicina a cogliere nel segno. Vassalli ha ragione quando rimprovera ai giovani universitari del '68 l'uso della Lettera. L'avessero letta, avrebbero scoperto che anche loro stavano nel mazzetto esiguo dei "disgraziati privilegiati". La lotta alla selezione di classe nella scuola non andava combattuta in Italia nelle università, ma dove venivano e vengono falciati ragazzi e ragazze degli strati più poveri, anche culturalmente, del paese: nelle elementari, in prima media, al primo anno delle medie superiori. Vassalli crede che la selezione di classe sia una invenzione ideologica. Si legga, per favore, il libro di una economista, Fiorella Padoa Schioppa, Scuola e classi sociali (Il Mulino), o vada nelle scuole dello Zen e dei Quartieri Spagnoli. E poi ne riparliamo. Sensibile alle invenzioni ideologiche, ma palesemente incompetente in materia di vicende della scuola in Italia, Vassalli, bravo scrittore, sbaglia del tutto bersaglio e confonde don Milani con la contestazione del ’68. Competente in arte dello scrivere, nonostante la scoperta ostilità per don Milani, Vassalli non riesce a frenare un giudizio acuto sulla sua scrittura: "una prosa scarna, ma non priva d'efficacia" (a Vassalli le prose piacciono cicciotte), "prosa elegante". Vero. Dove invece Vassalli non è competente, non può che dire cose fuori dalla verità, perfino dalla sua apparenza. Sarebbe un atto di stima fermarsi a smentirle, a discutere le citazioni strappate al contesto e piegate ad altro senso, a spiegare che certo non è don Milani il responsabile di un secolo di mancato funzionamento della scuola pubblica italiana. Ma ci sono tanti libri ed esperienze comuni a smentire queste cose, ci sono gli scritti di don Lorenzo a ricordarcene l'immagine viva.

 

UN GIOCO SBAGLIATO

di Gianni Vattimo

La Stampa, Torino, giovedì 2 luglio 1992

E’ difficile non essere tentati di considerare anche il libro di Roberto Berardi contro don Milani, e soprattutto l’articolo di Vassalli che ne riferisce ampiamente su La Repubblica (non lo scritto, molto più sobrio, di Maria Grazia Bruzzone che per prima ne ha parlato su questo giornale sabato scorso) come un episodio di quella "resa dei conti" che sembra essersi scatenata contro la cultura di sinistra in questi ultimi tempi e che ha un suo punto alto nell’attacco di Panorama a Bobbio. Adesso è la volta del mitico Lettera a una professoressa di don Milani.

Al prete di Barbiana, Berardi, e Vassalli con lui, imputano di essere stato uno dei principali ispiratori della contestazione sessantottesca che ha puramente e semplicemente rovinato la scuola italiana. Come se il libro di don Milani e il movimento del 68 fossero esplosi dal niente, una invenzione dei cattivi maestri, mettendo a soqquadro una situazione normale e, si suppone, dato il rimpianto con cui la si rievoca, idilliaca. Ma se la contestazione del Sessantotto ha trovato un terreno così fertile è perché la scuola aveva cominciato a funzionare male già da prima. E almeno alcune delle ragioni del suo cattivo funzionamento sono quelle che, magari con eccessi che oggi non ci sentiremmo più di sottoscrivere, don Milani e i suoi ragazzi avevano crudamente indicato. E’ vero che la scuola pre-Sessantotto, soprattutto certi tipi di scuola come i licei, era un posto dove stavano a loro agio solo i figli dei borghesi. E’ vero anche che rispetto alle difficoltà di inserimento dei ragazzi che provenivano da strati sociali meno fortunati (così si dice, con un elegante eufemismo) la scuola faceva troppo poco: tendeva a sanzionare l’impreparazione e la "mancanza di basi", piuttosto che offrire effettive possibilità di supplirvi. Forse è eccessivo dire che questo prova il carattere classista della cultura, ma l’idea non può essere liquidata come il sogno di una mente malata.

La scuola pre-Sessantotto si trovava a far fronte a un processo di massificazione che corrispondeva a un generale miglioramento delle condizioni economiche del Paese; ma le sue strutture non erano preparate a sopportare una così massiccia ondata di scolarizzazione. Spesso reagiva con una chiusura difensiva e con meccanismi di espulsione. L’ideale di don Milani, di una scuola che formasse alla vita, che non separasse la cultura dall’esperienza viva e anche dai conflitti sociali in atto, non è poi tanto diverso dagli ideali di molti grandi educatori e utopisti antichi e recenti. Lo sfascio è cominciato davvero non quando le idee di don Milani, e altre simili, si sono messe in atto (non risulta che ci sia stata una riforma della scuola "modello Barbiana"), ma quando si è risposto alla contestazione con misure puramente "quietive", con rattoppi e compromessi escogitati per mantenere la pace sociale concedendo poco o nulla al rinnovamento.

Infine: la resa dei conti postuma con don Milani, come anche molte altre cose a cui assistiamo, ha i chiari connotati della nevrosi. Don Milani, come tutta la contestazione del Sessantotto, esprime e denuncia gravi problemi reali: questi problemi non sono affatto risolti, sono ancora in gran parte davanti a noi; e di ciò si rovescia la colpa su chi li ha denunciati e a provato a proporre, magari con un eccesso di utopismo, delle vie di uscita. Non è un gioco che dovrebbe finire?

 

MA IL PARROCO DI BARBIANA VOLA PIU’ALTO

IL CASO DON MILANI

Continua la discussione sull’autore della ‘Lettera a una professoressa’.

Interviene con questa intervista Gino Pampaloni

di Nello Ajello

la Repubblica, venerdì 3 luglio 1992, pag. 35

Geno Pampaloni è uno di quei pochi intellettuali italiani (gli altri nomi che vengono in mente sono quelli di Jemolo o di Silone) che siano riusciti, nei nostri anni, a conciliare un senso religioso della vita con gli imperativi della morale laica. Il suo atteggiamento nei riguardi di don Milani, del quale si discute animatamente in questi giorni, si collega con questa sua rara indole culturale. Pensa che le accuse rivolte da Sebastiano Vassalli al parroco di Barbiana non rendano giustizia a una personalità di uomo e di sacerdote assai complessa e suggestiva, che non si presta ad essere ingabbiata negli schemi della destra e della sinistra, fino a farne -postumamente- un bersaglio polemico. All’origine della polemica, appunto, c’è il celebre libro di don Milani, Lettera a una professoressa, che porta la data del 1967, un anno prima della ventata di contestazione studentesca. Anche per motivi di calendario, il sacerdote toscano viene così considerato un anticipatore di temi e comportamenti protestatari che oggi sono, a seconda dei casi, rimpianti o esecrati. Ma Pampaloni non si presta a un gioco così semplice. "La protesta -dice- in don Milani sicuramente c’era. Ma rientrava in una personalità assai ricca di spiritualità. Accanto al desiderio di libertà, non c’era in lui la minima traccia di illuminismo. Viveva fra i suoi ragazzi, nella sua piccola comunità senza farsi portatore, come altri -penso, per esempio, a padre Balducci- di visioni universali o planetarie. Era obbediente alla Chiesa, come un cane fedele, e l’obbedienza è il lato mondano della fedeltà. Quando la gerarchia lo umiliava o lo maltrattava, ne soffriva molto, ma senza concedersi veri gesti di ribellione. Era un modo di comportarsi profondamente legato alle sue radici cristiane e, insieme, ebraiche. Quello della Bibbia è un Dio crudele, che esige fedeltà. Questo sembra sia stato un motivo ispiratore della sua vita". Tra i frequentatori abituali di don Lorenzo -lo ricordava Tullio De Mauro nel suo intervento di ieri su Repubblica- non c’erano che i suoi alunni e le persone care di famiglia. Non era uomo aperto alle amicizie intellettuali. Diffidava degli uomini di cultura. "E’ un atteggiamento", rileva Pampaloni, "non infrequente nei cattolici: Nicola Lisi disse, una volta, che don Milani somigliava a Domenico Giuliotti. Verso i rappresentanti della cultura avevano, l’uno e l’altro, una specie di diffidenza carnale. Non si può dire che questo sia un fatto positivo, ma è senza dubbio qualificante. Non si capirebbero, senza tenerne conto, certi furori intellettuali". Venticinque anni fa, Pier Paolo Pasolini dedicò a don Milani la sua attenzione, parlandone con intensa simpatia ed affetto. Il critico Pampaloni trova delle analogie letterarie fra i due? "Se ci sono delle somiglianze", distingue lo scrittore, "si collocano più sul piano delle intenzioni che su quello letterario vero e proprio. Lettera a una professoressa, quando uscì, mi fece una grande impressione. Ero allora nella giuria del premio Prato. Lo assegnammo, appunto, al libro di don Milani. Ci si trovò di fronte a una scrittura concreta, diretta, ruvida. Da quelle pagine emanava un insegnamento: la ricchezza degli uomini sta nella loro capacità di comunicare, nei modi di usare il linguaggio. Detta allora, e con quella potenza, era una novità sconvolgente. Un sasso in uno stagno". Chissà se però, nel Sessantotto e nei suoi lunghi postumi, i giovani fecero un uso giusto di queste intuizioni del parroco di Barbiana. "Forse no", risponde Pampaloni. Il suo nome, la sua figura, sono stati un po’ strumentalizzati sia dalla gerarchia ecclesiastica che da quei giovanotti che vollero vedere in lui un campione dell’eversione. Lui aveva una carica di protesta fortissima ma -come dicevamo- radicata nella fedeltà. La fedeltà era in definitiva il suo segno spirituale predominante". Non credeva nella scuola italiana. Ne criticava i programmi. Ne sottolineava la natura di classe. Diffidava della pedagogia ufficiale e del modo in cui veniva applicata nella pratica, fra i banchi. Derideva gli esami e i metodi con cui essi venivano condotti. E’ forse il caso di chiedersi se, in queste sue critiche demolitrici, non ci fosse un eccesso di intransigenza umana, di incomprensione, di insensibilità verso il lavoro degli insegnanti, svolto spesso in condizioni difficili. Pampaloni è d’accordo. "Qui don Lorenzo Milani fu ingeneroso. Il professore tranne rari casi di indifferenza o di cinismo proclamato, stabilisce sempre un rapporto con i ragazzi, anche in una scuola dissestata e arcaica. Questo lui non lo capì". Commentando la discussione che si sta sviluppando in questo giornale, Gianni Vattimo ha scritto sulla Stampa di ieri che gli attacchi a don Milani rientrano in quella "resa dei conti che sembra essersi scatenata contro la cultura di sinistra" in questi ultimi tempi. "Può darsi che sia così", commenta Pampaloni. "Ma io non ci credo molto. E, soprattutto, mi sembrerebbe irrispettoso coinvolgere don Milani in certe dispute contingenti. La sostanza del suo insegnamento morale si colloca al di là e al di sopra di esse. Basti ricordare la sua celebre lettera a un giovane militante del Pci. A questo comunista il parroco di Barbiana diceva, in sostanza: quando avrai perso, mi troverai accanto a te. Direi che in queste parole c’è tutto don Milani. E’ una presa di posizione, oltre che culturale, umana. E gli fa molto onore".

 

MA ALLORA I MITI NON MUOIONO MAI

IL CASO DON MILANI

Vassalli risponde alle critiche sollevate dal suo articolo sul parroco di Barbiana

di Sebastiano Vassalli

la Repubblica, sabato, 4 luglio 1992, pagina 34

Prima di scrivere l’articolo su don Milani, giorni fa, mi ero riletto, dalla prima all’ultima, le 166 pagine della Lettera a una professoressa e il libro è ancora qui davanti a me, nell’edizione originale del 1967 che credo sia ormai una rarità bibliografica. Mi chiedo come possa ancora suscitare umori e amori dopo venticinque anni. Spero che Mondadori -che fu uno degli editori di don Milani- lo ristampi negli "Oscar", e che i suoi sostenitori, leggendolo per la prima volta o rileggendolo, si accorgano che non è più difendibile di quanto lo siano le economie pianificate dei Paesi dell’Est, la Trabant e i "cento fiori" della rivoluzione culturale cinese. Sono sincero: non avrei mai pensato di fare tanto chiasso con il mio articolo del 30 giugno -oltretutto odio il rumore- e non avevo intenzione di provocare nessuno; volevo soltanto rivisitare un mito degli anni Sessanta, con il senno degli anni Novanta. La discussione che si è poi sviluppata mi ha però insegnato almeno una cosa: che i miti o cadono da sé con il fragore del muro di Berlino, oppure è meglio lasciarli dove sono, finché il tempo li cancelli. La ragione non può, e forse non deve, aprire gli occhi di chi sogna e vuole continuare a sognare, o interferire con i ricordi degli amici, pronti a giurare che il loro don Milani non ha niente a che vedere con la contestazione del Sessantotto... Sì, fu un simbolo del Sessantotto Don Milani invece -che ci posso fare?- fu proprio uno dei simboli di quella contestazione. Lo fu indipendentemente dalla sua volontà e da quella di chi lo conosceva, e lo fu come autore di un solo libro, quella Lettera a una professoressa, che, a torto o a ragione, venne poi usato negli anni successivi come manifesto dell’antiscuola. Il mio articolo del 30 giugno - lo ricordo per chi non lo avesse letto - prendeva spunto dall’uscita di un saggio di Roberto Berardi (Lettera a una professoressa. Un mito degli anni Sessanta) ed era centrato esclusivamente sul mito di don Milani educatore e teorico dell’educazione. In ciò non facevo altro che seguire Berardi, la sua premessa sul frontespizio del libro: "Questo studio non prende in esame il Milani sacerdote, né il Milani sociologo di Esperienze pastorali, né il difensore degli obiettori di coscienza, né l’altro Milani delle lettere alla madre, ma si limita ad analizzare la Lettera a una professoressa e, in rapporto ad essa, il mito di Milani educatore ed insegnante quale è stato accreditato nei passati decenni...". Ora, non è colpa né mia né di Berardi se quel mito, sottoposto, non dico a verifica, perché un articolo di giornale non è sufficiente per ciò, ma a quella semplice lettura della Lettera che molti suoi seguaci non hanno mai fatta, pare destinato a disgregarsi da solo. La notizia che nella "scuola di Barbiana" si usavano, oltre alle mani, anche la frusta per punire i ribelli, e che volavano botte non sono stato io il primo a darla, è stato lo stesso don Milani; il quale, del resto, non aveva mai fatto mistero d’avere una concezione autoritaria ed autocratica del ruolo dell’insegnante; una concezione del tutto coerente con i modelli allora in auge nei paesi del socialismo reale, e con la sua visione classista della società. Anche Gramsci, in carcere, pensava che fosse necessaria la coercizione, cioè le busse e i castighi per educare i giovani; ma a proposito di scuola e di cultura aveva idee molto più articolate e complesse di quelle di don Milani. Tanto per cominciare, non credo che avrebbe voluto introdurre il contratto dei metalmeccanici tra le materie di studio della scuola media, e ciò soltanto per una questione d’ordine (ogni cosa al suo posto); non avrebbe sputato sull’Iliade del Monti e non avrebbe buttato via nessun libro, nemmeno il Catechismo o il Manuale del caporale in cui anzi aveva visto riassunti, in estrema sintesi, secoli di saggezza educativa. Don Milani invece incominciò a buttare via i libri di matematica e di pedagogia della scuola magistrale, e i suoi seguaci sessantottini buttarono poi via tutto il resto. Nacque il "donmilanismo": che, forse, era lontano dalle intenzioni di don Milani, ma che fa parte integrante del suo mito e non può essere trattato separatamente, come se appartenesse a un’altra persona... Tullio De Mauro, nell’articolo su Repubblica del 2 luglio 1992, dice che io sono un bravo scrittore e di ciò lo ringrazio, ma dice anche che non ho titolo per parlare di don Milani; e su questo punto non sono d’accordo. Per quindici anni, dal 1965 al 1979, mi sono sforzato, giorno dopo giorno, di essere anche un bravo professore; e ho maturato in quegli anni difficili la persuasione - forse sbagliata ma certamente legittima per un insegnante - che la nostra povera scuola di Stato abbia urgente bisogno di un legislatore che porti a termine le riforme avviate trent’anni fa; e che non abbia invece alcun bisogno di redentori, e di maestri carismatici come don Milani. Che i redentori portino solo scompiglio; e questo è tutto. Ho riletto in questi giorni, su vari giornali, vecchie e nuove statistiche sulla "mortalità scolastica" e sull’analfabetismo degli anni Cinquanta e Sessanta. Anche la Lettera a una professoressa è piena di statistiche: ma - l’ho già detto nell’articolo del 30 giugno - fu una mistificazione attribuire quei numeri, che riguardavano le più grandi trasformazioni sociali dell’Italia unita, allo scontro tra borghesia e proletariato; scontro a cui avrebbe dovuto corrispondere - secondo don Milani - lo scontro tra insegnanti e studenti all’interno della scuola. Questa è la ragione profonda e la vera chiave di lettura della Lettera, e questo è anche il motivo per cui quello scritto, oggi, è del tutto improponibile. Ma i miti, l’ho già detto, stentano a morire. In quanto a don Milani, duole dirlo ma bisogna dirlo perché è la verità: le uniche statistiche che lui contribuì davvero a incrementare furono quelle dei passaggi dalla scuola di Stato alle scuole private, religiose e non, e degli introiti di quelle scuole. Anche se gli scopi della sua Lettera erano tutt’altri, il risultato concreto, in definitiva, fu proprio questo. Da uomo intelligente e informato qual era, don Milani sapeva che non erano gli insegnanti i soli e i veri responsabili dei mali della scuola italiana; sapeva che al di sopra degli insegnanti c’era il potere legislativo, c’erano i ministri democristiani di quegli anni, c’era il potere esecutivo dei burocrati; sapeva che gli insegnanti non sono responsabili dei programmi e degli orari della scuola in cui insegnano, e che anche il loro massimo potere, quello di bocciare, non è un potere individuale ma collegiale. (Perciò il suo libro è demagogico fino nel titolo: nessuna singola professoressa aveva avuto il potere di bocciare i ragazzi di Barbiana, ma quelle bocciature erano state decise da un organismo collegiale di cui facevano parte, per legge, un presidente di commissione e una decina di insegnanti di varie materie, tra cui un prete). Povera Italia e povera sinistra! Don Milani sapeva tutte queste cose: però volle ugualmente dividere il mondo come allora s’usava, con tutti i buoni da una parte e tutti i cattivi dall’altra, e si scelse come bersaglio di comodo gli insegnanti. In questo senso, e in questo soltanto, il suo libro fu una mascalzonata: perché attribuiva tutti i mali della scuola ai soli professori ("la vostra scuola", "i vostri programmi") e istigava al linciaggio morale di un nemico, che non era poi nemmeno il vero nemico. Ma se don Milani avesse davvero alzato il tiro contro l’istituzione scolastica e i suoi potentati, l’arcivescovo lo avrebbe costretto a fare le valige anche da Barbiana e gli avrebbe tolto anche quell’ultimo pulpito. Perciò -credo- lui se la prese con gli insegnanti, che del resto sembravano messi lì apposta per fare da bersaglio ai rivoluzionari dell’epoca, come i poliziotti di Valle Giulia infagottati nelle loro divise. Soprattutto i giovani, e tra loro l’autore di questo articolo, erano tutti poveracci e figli di poveracci: miracolati del "miracolo economico", che, in onta alle statistiche, gli aveva permesso di arrivare alla laurea. Manovalanza intellettuale senz’altri sbocchi sul mercato del lavoro, che dall’università passava direttamente nella scuola di Stato, allora in grande espansione, e sognava e si sforzava di migliorarla. Queste e non altre furono, in concreto, le vittime della Lettera a una professoressa; i beneficati, invece, furono i furbi di sempre, studenti e insegnanti che buttarono all’aria libri e registri e si fecero qualche anno di finte lotte e di vere vacanze, movimentate da cortei e da discorsi reboanti contro la scuola di classe... Povera Italia! E povera sinistra, che dal ’68, o forse dal ’45, non ha saputo fare altra politica culturale che quella d’applaudire tutte le primedonne e tutti i tenori che hanno calcato le platee del bel paese, e che già ha incominciato a pagarne le conseguenze; ma che ancora non sembra rendersene conto, e resta cieca e sorda sui suoi errori di sempre.

 

FU UN ANOMALO MAESTRO DEI POVERI

IL CASO DON MILANI

Come leggere oggi quella lettera ‘incriminata'

di Franco Ferrarotti

la Repubblica, sabato 4 luglio 1992, pag. 34

Fattosi prete relativamente tardi, contro la consuetudine italiana, don Lorenzo Milani resta un personaggio difficile da comprendere. La sua missione di parroco-educatore, ma anche di intransigente difensore degli obiettori di coscienza in tribunale, non è agevolmente classificabile nel casellario della pratica sacerdotale cattolica. I termini di confronto che vengono subito alla memoria in realtà non reggono. Quello con don Primo Mazzolari non tarda a mostrare la corda. In don Lorenzo Milani non è dato di scorgere alcuna concessione alla bonomia piuttosto casareccia del parroco di Robbio Lomellina. D’altro canto, non sembra tenere neppure il raffronto con Domenico Giuliotti. Sia "L’ora di Barabba" che il "Dizionario dell’omo salvatico" - quest’ultimo scritto a quattro mani con Giovanni Papini - nonostante l’ostentata vena antiborghese e le apocalittiche invettive hanno poco in comune con la prosa toscanamente secca, quasi ruvida, di Lorenzo Milani. Se un autore sembra suonare affine quanto allo stile, questi è Ardengo Soffici, ma un Soffici depurato di ogni preziosità parigina e tornato invece alla scarna semplicità della campagna toscana. Semmai, bisognerebbe richiamarsi a Léon Bloy, cui certamente non mancavano né il gusto né la pratica della fustigazione moraleggiante, da La femme pauvre a Suoeur de sang, ma che, rispetto al parroco di Barbiana, è ancora troppo letterato, troppo consapevole dello scandalo che le sue tirate avrebbero provocato fra i bigotti e la sua stessa rabbia è forse troppo esibita per non far sospettare una certa dose di autocompiacimento. Nulla di tutto questo in Lorenzo Milani. Per comprendere a fondo don Milani e la sua famosa Lettera a una professoressa è probabilmente necessario aver letto in primo luogo le sue Esperienze pastorali. Sono le riflessioni di un parroco di quartiere, che tratta quotidianamente con i poveri e più ancora con gli strati inferiori della povertà, là dove la povertà scade a miseria cronica, a situazione di penuria dalla quale non si vedono vie d’uscita, che anzi si perpetua e si conferma, di generazione in generazione, come una condanna biblica. C’è in quelle pagine la notazione spoglia, essenziale che si ritroverà nella "Lettera". Nulla di letterario. Nessun autocompiacimento. E, meno ancora, nessuna protesta, assoluta ed estetizzante nello stesso tempo. C’è solo l’opacità di un quotidiano senza speranze, che è da vivere giorno per giorno con l’assillo di trovare l’espediente come unico mezzo di sopravvivenza. Don Milani non condanna, non esalta, si limita a registrare, con una attenta, quasi umile subordinazione al reale, a ciò che accade, a ciò che ascolta e sobriamente trascrive. Alieno da ogni demagogico populismo, questo prete si sente che è accanto al popolo vero. Da questo punto di vista, il suo realismo è impressionante. Comprende che la scuola può essere una via d’uscita, se è presa sul serio e se i maestri cesseranno di farne un noioso mattatoio di intelligenze. Altro che abolizione delle scuole di un Ivan Ilich. Esaltare l’analfabetismo come lo stato di una natura beata non ancora toccata dalle artificiose nozioni della cultura scolastica significherebbe, a suo parere, cadere vittime di un atteggiamento di preziosismo culturale, tipico di spiriti assai coltivati, tanto coltivati da avvertire un senso sottile di nausea per la cultura, così come avviene che una sera, dopo le eleganze di una riunione mondana, un gruppo di persone spensierate e ricche si dia a visitare i quartieri miserabili e i bassifondi della città. La fame di scuola è in realtà tanto seria quanto quella di pane. "Immagino - scrive don Milani al direttore della Rai - che facciate spesso delle ricerche d’opinione pubblica per regolarci sopra i programmi. Lei sa però che io sostengo da anni che i poveri chiedono le cose leggere per una vernice che il mondo ha imposto loro sopra, mentre se appena la si gratta un po’ si scopre che non chiedono che scuola. (...) Per esempio, le lingue moderne avrebbero un pubblico immenso. Da tutte le parti mi chiedono come imparare le lingue, la piccola borghesia muore di voglia di insegnare lingue ai propri figli. (...) Nel mondo dei poveri poi il desiderio è ancora più forte anche se inespresso perché velato dalla disperazione" (Lorenzo Milani, Lettere, Mondadori 1970 pag. 179-180). Lorenzo Milani comprende che la fame di scuola non è un fenomeno di lusso. Si collega ad esigenze vitali, quotidiane e circoscritte. L’anomalo maestro di Barbiana anticipa la contestazione del ’68 ma dà anche un preciso appuntamento al suo fallimento. Ne individua in anticipo le debolezze fondamentali, legate all’aristocratica noncuranza con cui si teorizzava lo scontro globale senza preoccuparsi dei costi collettivi e della dimensione umana, non puramente, astrattamente dottrinaria, del cambiamento sociale. In questa prospettiva don Milani si ricollega alla tradizione pedagogica del socialismo prefascista, che arriva fino a Gramsci e a Di Vittorio, ma della quale purtroppo non si trovano tracce degne di nota nella sinistra sindacale e politica di oggi.

 

ANCORA SU DON MILANI EDUCATORE

di Roberto Berardi

Nuova Secondaria, Brescia, n° 6, 15 febbraio 1993, pagg. 11-12

Chi di Milani ha letto tutto ciò che è stato sinora pubblicato, sa che nei suoi scritti (sintetizzo per necessità) si possono intravedere parecchi "don Milani", con molteplicità di interessi ma anche con una diversità di atteggiamenti, toni, stati d’animo, comportamenti, che rendono arduo un profilo unitario. C’è, per esempio, il Lorenzo Milani delle Lettere alla mamma, raccolte e annotate da Giuseppe Battelli (Marietti, 1990). Chi leggesse solo questo volume, ne trarrebbe l’immagine di un don Milani uomo di animo tenerissimo, delicato, affettuoso, edificante nei contenuti, nei toni, nel vocabolario; un uomo molto diverso dall’autore di tanti altri scritti e comportamenti. A lato, c’è il Milani autore di lettere (solo parzialmente note) a persone amiche o confidenti; qui contenuti, toni, vocabolario sono talvolta di qualità molto diversa da quelli delle pagine indirizzate alla madre (mi riferisco ai testi integrali, non censurati). C’è poi il don Milani di Esperienze pastorali (1958, edite dalla Libreria Editrice Fiorentina come le opere successive), uno dei primi saggi di sociologia della parrocchia che sia uscito in Italia. Il libro ha difetti strutturali; i sociologi vi hanno trovato carenze di metodo nella raccolta e nell’elaborazione dei dati: altri gli ha rimproverato l’apologia del "cappellano", cioè dell’autore medesimo, giudicata eccessiva; resta però il merito che con questo libro don Milani affrontò con impegno un argomento che in Francia era trattato da tempo, ma su cui in Italia erano usciti sino allora pochi studi.

C’è ancora il Milani appassionato e coraggioso oratore in difesa degli obiettori di coscienza nella Lettera ai cappellani militari della Toscana e nella Lettera ai giudici, in tempi in cui gli obiettori erano pronti ad affrontare anni di prigione pur di mantenere fede ai propri convincimenti, senza ombra di vantaggi personali. Infine, c’è l’autore di Lettera a una professoressa, su cui i giudizi finora correnti mi sono apparsi bisognosi di una drastica revisione. E’ partendo dall’analisi di quest’ultimo scritto che sono pervenuto a conclusioni complessivamente critiche sull’esperienza del Milani educatore e scrittore di educazione. Non è stato semplice giungervi.

Il mito e il documento

Quando decisi si riesaminare l’attendibilità e il valore intrinseco della Lettera a una professoressa (le ricerche e i raffronti mi impegnarono due anni), allargai di necessità la verifica molto al di là dell’opuscolo, e finii col prendere in considerazione tutto ciò che Milani aveva fatto a proposito di educazione e di scuola. Ne venne fuori un quadro che mi sconcertò non poco, a mano a mano che procedevo nel lavoro. Venti anni prima avevo letto di lui, per curiosità intellettuale, i libri pubblicati dalla LEF e da Mondadori; e avevo rilevato, nella Lettera a una professoressa, un atteggiamento puramente passionale, che ripudiava ogni esame razionale e ogni riscontro con la realtà dei fatti, e si esprimeva in un linguaggio che rifiutava il dialogo. Per il resto, sapevo di don Milani quasi solo ciò che avevano scritto (laudativamente) i giornali. Negli anni settanta avevo anche osservato in molte scuole medie "sperimentali" veri disastri didattici e pedagogici a danno degli alunni dei ceti più modesti, compiuti in nome di Barbiana; ma propendevo ad attribuirli a inesperienza o incapacità di imitatori maldestri.

Nel corso della ricerca mi accorsi invece che la conoscenza che avevo avuto sino allora di Milani educatore e della sua Barbiana era "mitica", cioè sganciata da un vaglio oggettivo dei testi, e privata dei documenti e delle testimonianze che gli apologeti avevano ignorato, o taciuto o censurato quando non si prestavano alla raffigurazione idealizzata. Ora, invece, dalla sua vasta corrispondenza (che ha cominciato a essere pubblicata in forma integrale, senza tagli di comodo, da non molti anni), dal testo della Lettera a una professoressa esaminata con distacco, capoverso per capoverso, e confrontata con la realtà scolastica del tempo, e infine dalle testimonianze non soltanto apologetiche di chi lo aveva conosciuto direttamente, emergeva un Milani che era parecchio diverso dal Milani che era stato mitizzato per anni, con discorsi appassionati ma astratti, nelle conferenze, sulle riviste, sui giornali e alla televisione. Non ripeterò qui ciò che ho scritto nell’articolo e più estesamente nel libro: sottolineo soltanto che saggio ed articolo poggiano appunto sulle testimonianze, sui documenti, sui testi, soprattutto sulla parola stessa di Milani puntigliosamente citata e annotata. Il mito ne è risultato ridimensionato, come quasi sempre succede quando si guarda la realtà da vicino, senza la nebbia del sentimento.

Sentimento e analisi

E’ alla luce di questa stessa documentazione che ho esaminato le censure e le critiche che mi sono state mosse sia su "Nuova Secondaria", sia su altre riviste e su quotidiani. Critiche e censure che mi hanno sempre più convinto che il fondamento della persistente (anche se ormai circoscritta) "fortuna" del Milani autore di Lettera a una professoressa e quindi del Milani "educatore" sia soprattutto emotivo. Le obiezioni alle mie tesi sono state appassionate ma generiche; hanno ribadito l’idealizzazione del personaggio, ma con argomentazioni più sentimentali che razionali; hanno fatto appello ai meriti di un don Lorenzo (che anch’io ho ricordato, quando reali), ma hanno taciuto sugli aspetti non positivi, o li hanno negati senza però scendere a precisazioni; hanno citato di lui affermazioni nobili che però sono patrimonio comune degli educatori di parte democratica degli ultimi due secoli, e poi hanno sorvolato sulla infondatezza o sulla assurdità di tante asserzioni della Lettera che pure servirono all’autore per costruire il suo attacco alla scuola di allora. Hanno taciuto sull’argomento scottante del turpiloquio. Hanno mostrato quanto sia grande l’amore tuttora portato all’immagine di Milani educatore che i media hanno accreditato per anni; ma appunto di un’immagine si tratta, non di una realtà accettabile.

Una questione di metodo

Dunque, quando si vuole criticare una opinione o una tesi, occorre analizzarla, controllare la validità delle sue fonti, e poi addurre documenti (documenti, non frasi sentimentali) per correggere o rettificare o confutare. E’ ciò che mi sono sforzato di fare nei confronti dell’opinione finora prevalsa su Milani educatore e sulla "scuola di Barbiana", in succinto nell’articolo uscito su questa Rivista, e più estesamente nel libro, ove ho documentato in nota quanto non poteva entrare nel testo. Nessuna ricostruzione o interpretazione è certa e indiscutibile; però le interpretazioni e le ricostruzioni hanno bisogno, se vengono contestate, di essere discusse col medesimo metodo. Questo, finora, non mi pare sia avvenuto, anche quando gli interventi sono stati estremamente seri e, diciamo pure, sofferti.

Qualcuno infine ha criticato il libro dopo aver solo letto la presentazione editoriale, comportamento abbastanza consueto in Italia. Un caso limite -mi sia consentito parlarne- è rappresentato da un articolo apparso su "Il mattino" di Napoli il 7 luglio 1992. L’estensore mi ha rimproverato dicendo che "di certo non [ho] letto la biografia, assai completa, di Neera Fallaci, né la molta letteratura edita, né i carteggi". Ebbene, nelle note l’opera della Fallaci è stata citata trentanove volte, è stato fatto riferimento ad altri trentadue scritti di bibliografia specifica su Milani, e sono stati riportati tra virgolette non pochi passi dei carteggi. Che dire?